Per esaudire le richieste pervenute tenteremo di affrontare le possibili relazioni tra primitivismo ed antispecismo.
In ambito antispecista vi sono molti fautori e detrattori del primitivismo, prima di poter però formulare una qualsiasi opinione sull’argomento è necessario, come sempre, tentare di comprenderlo e di conoscerlo.
Davide fornisce alcuni interessanti spunti di discussione al riguardo.
Davide scrive:
Non resisto, scusate ma in questo periodo sono in malattia e penso solamente… butto lì tre stralci che aprono le danze con spunti notevoli. (al secondo tengo particolarmente: il cosiddetto fenomeno dell’adultismo così inspiegabilmente poco affrontato; il padre e la madre della trasmissione dell’ideolgia del dominio che, attraverso una rimozione indotta, priva già i bambini della percezione positiva dell’animale, ad esempio, di cui autonomamente dispongono… non che imparano per merito di chissà quale etica di tipo razionale) commentiamoli insieme… buon lavoro. io parto per qualche giorno, non pensiate che mi sottragga alla critica!
Penso che Adriano possa aprire lo spazio di discussione sul primitivismo; per quanto riguarda il testo per la cassetta degli attrezzi, se non giungono altre proposte, io ne ho in testa a iosa…
Umano…troppo umano
L’idea che il destino dell’uomo sia di dominare la natura non è affatto un tratto universale della cultura umana. Quanto meno, quest’idea e completamente estranea alla concezione del mondo propria alle comunità cosiddette primitive o preletterate. Questo concetto è emerso molto gradualmente in seno ad una più vasta trasformazione sociale: il progressivo dominio dell’uomo sull’uomo. Il crollo dell’uguaglianza primordiale, sostituita da un sistema gerarchico d’ineguaglianze, la disintegrazione dei gruppi di parentela primitivi in classi sociali, la dissoluzione delle comunità tribali in città ed infine l’usurpazione dell’amministrazione sociale da parte dello Stato, sono tutti fattori che hanno concorso a modificare profondamente non solo la vita sociale ma anche l’atteggiamento reciproco delle persone, la visione che l’umanità aveva di se stessa e, infine, il suo atteggiamento verso il mondo naturale. Per molti aspetti, ci arrovelliamo ancor oggi con i problemi scaturiti da queste trasformazioni generali. Solo se esaminiamo gli atteggiamenti di certe popolazioni preletterate possiamo, forse, valutare fino a che punto il dominio abbia finito con il plasmare oggi i pensieri più intimi e le più minute azioni dell’individuo.
Sino a poco tempo fa, il dibattito sulla concezione del mondo delle società preletterate era complicato dall’opinione che le operazioni logiche di quelle popolazioni fossero nettamente diverse dalle nostre. Parlare di ciò che e stata definita la “mentalità primitiva” come di un fenomeno “prelogico”, per usare l’infelice termine di Levy-Bruhl, o di “pensiero non lineare”, come è stato recentemente definito nel linguaggio della mistica mitopoietica, e frutto di una lettura preconcetta della sensibilità sociale primitiva. Da un punto di vista formale, in realtà, le società preletterate erano e sono obbligate, nell’occuparsi degli aspetti più mondani dell’esistenza, a pensare proprio nel nostro stesso modo “lineare”. Nonostante i loro limiti in termini di saggezza e di concezione del mondo, le operazioni logiche convenzionali sono necessarie alla sopravvivenza: le donne raccoglievano i frutti, gli uomini forgiavano gli strumenti per la caccia ed i bambini inventavano i loro giochi secondo procedure logiche strettamente affini alle nostre. Non e questa somiglianza formale tuttavia che più mi interessa nell’esaminare la concezione che il mondo preletterato ha della società. Ciò che e significativo nelle differenze di prospettiva tra noi ed i popoli preletterati e che, mentre questi ultimi pensano come noi in senso strutturale, il loro pensiero si forma in un contesto culturale fondamentalmente diverso dal nostro. Anche se le loro operazioni logiche possono essere formalmente identiche alle nostre, i loro valori differiscono qualitativamente dai nostri. Quanto più procediamo a ritroso verso le comunità senza classi economiche e senza Stato politico, troviamo comunità che possono ben essere definite società organiche per la forte solidarietà interna e con il mondo naturale e tanto maggiori prove troviamo di una visione della vita che rappresenta le persone, le cose e le relazioni in termini di unicità anziché in base ad una loro “superiorità” o “inferiorità”. Per queste comunità gli individui e le cose non erano necessariamente migliori o peggiori, ma semplicemente dissimili.
Ognuno veniva valutato per se stesso, per le sue caratteristiche uniche. Il concetto di autonomia individuale non aveva ancora acquisito la ” sovranità ” fittizia assunta oggi.
Il mondo veniva percepito come un insieme composto da molte parti differenti, ognuna delle quali indispensabile alla sua unità ed armonia. L’individualità, finché non entrava in conflitto con l’interesse comunitario da cui dipendeva la sopravvivenza di tutti, era vista più in termini di interdipendenza che di indipendenza. La diversità, all’interno della più vasta trama comunitaria, era considerata un carattere fondamentale dell’unità sociale.
Nelle varie società organiche in cui prevale ancora questa concezione, concetti come “uguaglianza” e “libertà”, restano indefinibili. Come osserva Borothy Lee con acuta sensibilità:
“L’uguaglianza esiste nella natura stessa delle cose, come corollario alla struttura democratica della cultura e non come principio che deve essere applicato. In queste società non ci si prefigge l’uguaglianza come obiettivo da raggiungere, ed in realtà non esiste neppure il concetto stesso d’uguaglianza. Spesso, manca persino un qualsivoglia meccanismo per formulare paragoni. Ciò che si riscontra e un rispetto assoluto per l’uomo, per tutti gli individui indipendentemente dal sesso e dall’età.”
[…]
Educare è punire
La coercizione nei confronti dei bambini, nella maggior parte delle comunità preletterate, era così rara sin dai primissimi anni che gli osservatori occidentali si sono spesso stupiti dalla gentilezza con cui i cosiddetti primitivi trattavano i più insopportabili dei loro figli. E tuttavia, nelle comunità preletterate i genitori non erano “permissivi”; semplicemente essi rispettavano la personalità dei loro bambini allo stesso modo in cui rispettavano quella degli adulti della loro comunità. Sino a quando non comincio ad emergere la gerarchia, il comportamento quotidiano dei genitori favoriva nella vita dei loro figli una continuità quasi ininterrotta tra gli anni dell’infanzia e l’età adulta.
(…)
Sotto il pavé, la spiaggia
“Certo, la critica è incisiva e tutto quanto, ma com’è possibile passare da questo mondo lugubre ad un’esistenza piena e genuina?”
Penso che non dovremmo dubitare che questo viaggio sia possibile, né che l’esplosione necessaria per dargli inizio possa essere vicina.
Il pensiero della cultura dominante, come sappiamo, ha sempre affermato che la vita alienata è inevitabile. Infatti, la cultura o la civiltà stessa esprime questo dogma essenziale: il processo di civilizzazione, come ha osservato Freud, è il passaggio forzato da una vita libera e naturale ad una vita di continua repressione. Oggigiorno la cultura langue, desolata e logora, ovunque si guardi. Più importante dell’entropia che affligge la logica della cultura è però quella che sembra essere la resistenza attiva, per quanto appena abbozzata, che le viene opposta. Questo è il raggio di speranza che disturba la gara, altrimenti fin troppo deprimente, cui assistiamo per vedere se arriverà prima l’alienazione totale o la distruzione della biomassa.
Le persone sono imprigionate e messe alla ruota del vuoto quotidiano, e il fascino della civiltà sbiadisce. Lasch ha parlato di una rabbia quasi universale che dilaga nella società, appena sotto la superficie: sta crescendo e molteplici sono i suoi sintomi, che corrispondono al rifiuto di lasciare questo mondo insoddisfatti.
Adorno chiedeva: “Che cosa sarebbe la felicità se non fosse misurata dall’incommensurabile angoscia di fronte all’esistente?”. Di sicuro la condizione della vita è diventata un incubo tale da giustificare un simile interrogativo, e forse anche da indurre a pensare che qualcosa abbia preso una piega terribilmente sbagliata tantissimo tempo fa. Quanto meno dovrebbe dimostrare, entrando nello specifico, che i mezzi di riproduzione della civiltà dominante (cioè la sua tecnologia) non si possono usare per plasmare un mondo liberato.
Il signor Sammler di Saul Bellow si chiedeva: “Che cosa c’è di “comune” nella vita comune? E se qualche genio dovesse fare con la “vita comune” ciò che ha fatto Einstein con la “materia”? Scoprirne l’energia, svelarne la radiosità”. Ovviamente, dobbiamo tutti essere quell'”Einstein”, che è precisamente ciò che scatenerà un’energia creativa sufficiente a ridefinire completamente le condizioni dell’esistenza umana. Diecimila anni di tenebre e schiavitù, per parafrasare Vaneigem, non resisteranno a dieci giorni di rivoluzione totale, che comporterà la ricostruzione simultanea di noi stessi. Chi non odia la vita moderna? Può il condizionamento che ancora rimane sopravvivere a una tale esplosione di vita, che ne elimini inesorabilmente le fonti?
Siamo chiaramente tenuti in ostaggio dal capitale e dalla sua tecnologia, costretti a sentirci dipendenti, persino impotenti, schiacciati sotto il peso dell’opprimente inerzia di secoli di categorie, modelli e valori alienati. Di che cosa si potrebbe fare immediatamente a meno?
Confini, governi, gerarchia… Che altro? Quanto tempo occorre per eliminare le forme più radicate di autorità e separazione, come la divisione del lavoro? Sono convinto, e spero non con l’atteggiamento di chi vuole applicare alla realtà un principio astratto, che non si possa concepire la libertà totale e l’interezza di vita senza la dissoluzione del potere intrinseco degli specialisti di ogni genere.
Molti affermano che milioni di individui morirebbero se l’attuale sudditanza tecno-globale al lavoro fosse eliminata insieme alla merce. Questa affermazione però non tiene conto di molte potenzialità. Per esempio, consideriamo il gran numero di persone che sarebbero libere da occupazioni manipolatorie, parassitarie e distruttive a favore della creatività, della salute e della libertà. Ora come ora, in realtà pochissimi contribuiscono in qualche modo a soddisfare bisogni autentici.
Trasportare cibo per migliaia di chilometri, occupazione per nulla atipica oggigiorno, è un esempio di attività insensata, così come lo è la produzione di incalcolabili tonnellate di veleni di erbicidi e pesticidi. Quest’immagine dell’umanità che morirebbe di fame se si dovesse tentare una trasformazione si può ridimensionare prendendo in considerazione alcuni altri aspetti dell’agricoltura, di carattere più positivo. E’ perfettamente possibile, in termini generali, coltivare il cibo di cui abbiamo bisogno. Vi sono metodi semplici, che non comportano alcuna divisione del lavoro, e consentono di ottenere grandi rese in piccoli spazi.
L’agricoltura stessa dev’essere superata, così come l’addomesticamento, perché sottrae più sostanze organiche al terreno di quante ne restituisca. La permacoltura e una tecnica che sembra tentare un tipo di coltivazione che si sviluppa o si riproduce da sola e quindi tende ad avvicinarsi alla natura e ad allontanarsi dall’addomesticamento. E’ un esempio di promettente modalità di sostentamento intanto che ci si allontana dalla civiltà. Un altro aspetto pratico della transizione è la coltivazione nelle città e un ulteriore passo verso il superamento dell’agricoltura potrebbe essere la propagazione più o meno casuale di piante.
Per quanto riguarda la vita nelle aree urbane, si dovrebbe compiere qualsiasi passo verso l’autonomia e l’autosufficienza, a partire da ora, in modo da poter poi abbandonare tanto più rapidamente le città. Create in risposta all’esigenza del capitale di accentrare il controllo delle transazioni economiche, della religione e del dominio politico, le città restano enormi monumenti devastatori della vita in onore delle stesse esigenze basilari del capitale. Si potrebbero utilizzare come qualcosa di simile a ciò che ora conosciamo come musei, cosicché le generazioni successive al sovvertimento radicale del presente possano apprendere quanto grottesca sia diventata l’esistenza della nostra specie. Strutture mobili destinate a feste e divertimenti sarebbero forse la configurazione più simile alla città che la vita disalienata potrebbe esprimere. Parallelamente all’abbandono delle città, si potrebbe verificare un’analoga migrazione dai climi freddi verso quelli più caldi. Il riscaldamento degli spazi abitativi nelle regioni settentrionali costituisce un assurdo dispendio di energia, di risorse e di tempo. Quando gli esseri umani avranno ristabilito un’intimità con la natura e saranno diventati più sani e più robusti, tali regioni probabilmente si ripopoleranno, in maniera completamente diversa.
Quanto alla popolazione, la sua crescita è un fenomeno così poco naturale o neutro come lo è la sua tecnologia. Quando la vita è fatalmente priva di equilibrio, il bisogno di riprodursi appare come una forma di compensazione dell’immiserimento, mentre i livelli della popolazione sarebbero relativamente bassi come avviene fra i raccoglitori-cacciatori (* nota: una cosa non implica necessariamente l’altra) non civilizzati che ancora abitano alcune regioni del mondo.
Enrico Guidoni ha osservato che le strutture architettoniche necessariamente rivelano molto del contesto sociale in cui sorgono. Allo stesso modo, l’isolamento e la sterilità delle abitazioni nella società di classe non sono affatto casuali e meritano di essere eliminate in toto. Architettura senza architetti di Rudofsky esamina alcuni esempi di abitazioni costruite non da esperti, ma frutto di un’attività comune spontanea e in continua evoluzione. Immaginiamo l’invitante vivacità delle abitazioni, ciascuna unica e non prodotta in massa, espressione di una serena reciprocità che potrebbe emergere dall’abbattimento dei confini e delle miserie artificiali, materiali ed emotive.
E’ probabile che in un mondo nuovo la “salute” sarà un problema ancor più facile da risolvere di quello dell’abitazione. La “medicina” industriale e disumana di oggi è totalmente complice dei processi generali della società che ci derubano della vita e della vitalità. Tra gli innumerevoli esempi di criminalità odierna, lo sfruttamento diretto della miseria umana deve trovarsi ai primi posti. Le pratiche di cura alternative pongono già una grossa sfida al modello dominante, ma l’unica soluzione reale è l’abolizione di un sistema che per sua stessa natura genera una serie incredibile di malattie fisiche e mentali.
Da Reich a Mailer, ad esempio, il cancro è considerato come lo sviluppo di una follia generale repressa e negata. Prima della civilizzazione la malattia praticamente non esisteva. Come poteva essere altrimenti? Da dove provengono le malattie degenerative e infettive, i malesseri emotivi e tutti gli altri disturbi se non dal lavoro, dalla tossicità, dalla città, dall’estraniazione, dalla paura, dall’insoddisfazione, dall’intero tessuto di una realtà deteriorata e alienata? Distruggendone la fonte si sradicherà la sofferenza. I piccoli disturbi si potrebbero trattare con erbe e rimedi analoghi, senza parlare di una dieta basata su alimenti sani e non trattati.
E’ evidente che non ci si può liberare in un istante dell’industrializzazione e delle fabbriche, ma è altrettanto chiaro che se ne deve perseguire l’eliminazione con tutto il vigore nell’impeto dell’attacco. Questa riduzione in schiavitù degli individui e della natura deve scomparire per sempre, cosicché parole come produzione ed economia si svuotino di ogni significato. Un graffito del maggio ’68 in Francia diceva semplicemente “Adesso!”. I fautori di quella ribellione avevano evidentemente compreso la necessità di andare rapidamente fino in fondo, senza temporeggiare né scendere a compromessi con il vecchio mondo. Una rivoluzione a metà non farebbe altro che preservare il potere e cementare la sua presa su di noi.
Una vita qualitativamente diversa comporta l’abolizione dello scambio, sotto qualsiasi forma, a favore del dono e dello spirito del gioco. Al posto della coercizione al lavoro – e quanto del presente potrebbe continuare senza quel tipo preciso di coercizione? – l’obiettivo centrale ed immediato è un’esistenza priva di imposizioni: il piacere senza impedimenti, l’attività creativa sul modello di Fourier, secondo le passioni dell’individuo e in un contesto pienamente egualitario.
Che cosa conservare? Gli strumenti che consentono di “risparmiare lavoro e fatica”? A meno che non comportino alcuna divisione del lavoro (ad esempio, una leva o uno scivolo), questa nozione è pura fantasia; dietro il termine “risparmiare” si cela il duro lavoro di molti ed il saccheggio del mondo naturale. Come ha affermato il gruppo parigino Interrogations: “Le ricchezze di oggi non sono ricchezze umane; sono ricchezze per il capitalismo, che rispondono all’esigenza di vendere e stupire. I prodotti che fabbrichiamo, distribuiamo e amministriamo sono l’espressione materiale della nostra alienazione”.
Alla prospettiva o possibilità di trasformare la vita, viene opposto fin dal primo momento qualsiasi tipo di timore e dubbio. “La rivolta non significherebbe disordine, assalti, violenza, ecc.?” Tuttavia, le insurrezioni popolari sembrano dare espressione concreta a forti sentimenti di gioia, unità e generosità. Considerando gli esempi più recenti negli Stati Uniti, le insurrezioni urbane degli anni sessanta, New York nel 1 977 e Los Angeles nel 1992, si rimane soprattutto colpiti dalla condivisione spontanea, dal drastico calo della violenza interraziale e della violenza contro le donne, e persino dal clima festoso.
Il maggiore ostacolo sta nel dimenticare il primato del negativo. L’esitazione, la coesistenza pacifica: questa mancanza di desideri si rivelerà fatale se le si consente di prevalere. Il vero impulso umanitario e pacifico è quello che si dedica a distruggere implacabilmente la dinamica malefica nota come civiltà, a partire dalle sue radici. Il tempo è un’imposizione coercitiva e limitante della cultura, attribuire nomi significa esercitare un controllo, come contare, ed è un aspetto dell’allontanamento del linguaggio. Al punto estremo cui siamo arrivati possiamo scorgere la necessità di un completo ritorno alla terra, all’intimità di tutti i sensi con la natura, quella raggiunta prima che la simbolizzazione trasformasse l’esistenza in una caricatura reificata e separata di se stessa. Questa volta se ne potrà assaporare il fascino ancor più felicemente: ora sappiamo quello che i nostri antenati non hanno capito che andava evitato.
Si può cominciare subito a spaccare il cemento?
Con l’ormai consueto ritardo che mi contraddistingue, passo a rispondere ai punti proposti da Davide
Umano…troppo umano
Vorrei innanzitutto spianare la strada da eventuali dubbi: credo che sia molto interessante considerare le tematiche primitiviste e trarne degli insegnamenti che siano utili per l’elaborazione del pensiero antispecista. Sono sicuro che chi si occupa di primitivismo lo faccia per tentare di coniugare coscienza moderna e ruolo dell’umano primitivo nella natura in modo da permettere un riavvicinamento dell’umano moderno alla naturalità che lo permea e lo ha generato. Se così non fosse temo che si tratterebbe solo di una pia illusione, ossia: non ritengo sia assolutamente possibile pensare ad un ritorno, ma solo ad un cambiamento.
Detto questo credo sia indispensabile controbattere a quanto afferma Davide: a mio avviso se di mito si deve parlare allora esso risiede nell’idea di uguaglianza primordiale. Una vera solidarietà primitiva dell’umano c’è stata in quanto utilitaristica: la forza del clan familiare prima, del gruppo e della società poi, hanno permesso l’espansione del dominio della specie umana sul nostro pianeta. Ogni clan familiare aveva un capo (uomo o donna) o una coppia di capi, si era quindi (se proprio vogliamo dare una definizione conosciuta per la società umana moderna) in regime perlomeno oligarchico o diarchico, il capo branco e la sua femmina, il maschio e la femmina alfa, la loro prole, le discendenze e altri elementi affiliati. Ritornando sempre allo stesso concetto, temo, che le discussioni sul primitivismo debbano prendere una piega diversa ed essere avviate su un fronte che consideri un fatto re basilare: l’umano preistorico aveva un preciso ruolo come specie animale nell’ecosistema, un ruolo che egli ricopriva ma che , in tutta evidenza, non aveva deciso. L’essere umano moderno si è cucito addosso un ruolo che trascende ogni legame naturale in quanto parto della sua mente.
Il sottile filo che lega essere umano primitivo ed essere umano moderno è indubiamente presente, quindi, a rigor di logica, se ciò che siamo oggi deriva dalla nostra volontà, e la nostra mente è un’emanazione diretta di quella dei nostri antenati primitivi, come si può considerare la società primitiva esente dal germe della volontà di dominio?
Parlerei pertanto non di società primordiale egualitaria, ma di situazione naturale primordiale e di situazione artificiale – e degenerata – attuale.
Educare è punire
Concordo con questa visione, a patto che si consideri il fatto che la coercizione nei confronti dei figli è cresciuta di pari passo con la complessità della struttura sociale in cui i piccoli erano calati. La realtà del piccolo gruppo familiare primitivo è profondamente diversa da quella della moderna società umana. La semplicità dei ruoli della prima ha permesso lo svolgersi di un naturale rapporto tra genitori e figli, la complessità, la verticalità e l’assurdità di molti aspetti della nostra società non lo permette.
Sotto il pavé, la spiaggia
Questo punto è molto vasto ed articolato, mi riservo quindi di affrontarlo con più calma prossimamente
Il pezzo che avevo trascritto:-
“L’uguaglianza esiste nella natura stessa delle cose, come corollario alla struttura democratica della cultura e non come principio che deve essere applicato. In queste società non ci si prefigge l’uguaglianza come obiettivo da raggiungere, ed in realtà non esiste neppure il concetto stesso d’uguaglianza. Spesso, manca persino un qualsivoglia meccanismo per formulare paragoni. Ciò che si riscontra è un rispetto assoluto per l’uomo( e non solo…), per tutti gli individui indipendentemente dal sesso e dall’età.”
– è il passo sull’ugualianza che mi rappresenta e che cerco di sviluppare un pò in risposta al commento precedente.
Il sostenere che l’ugualianza è un’idea alla quale i movimenti emancipatori si riferiscono per affermare dei singoli, o, limitatamente, più, aspetti nel campo dei diritti, mette in luce quale sia la natura astratta delle rivendicazioni che la società civilizzata produce; si presume che i rapporti interpersonali, e non, percorrano un proprio percorso di affermazione di equità, perdendo di vista a mio avviso l’incompatibilità che condiziona un’evoluzione non contestualizzata in senso ampio.
Provo a spiegarmi meglio: esistono degli interessi che, conseguiti a sè stanti, permettono una proiezione del pensiero, attraverso la volontà, verso il conseguimento di uno stato solo ideale -es. la donna ha il diritto di gestire il suo corpo anche se in stato di gravidanza, e nel contempo l’applicazione di questo che è un principio di per sè valido consente di osteggiare il presunto diritto del feto ad abbracciare la vita al di fuori dal grembo materno, secondo alcuni ( e magari anche secondo alcuni antispecisti ) io dico legittimamente.
Non intendo entarre nel merito della questione, che pur in futuro lo meriterà (in un’ottica nuova antispecista, non come viene fatto ora), volevo esplicitare come nella pratica la realizzazione di un’ugualianza è sulla carta, tutt’al più direi il tentativo di conciliare le esigenze delle ugualianze e non l’adesione ad un valore omnicomprensivo al quale tendere e in base al quale si orienta in via ipotetica la società. Alla luce di questa impossibilità dobbiamo attingere da quell’ugualiaza primordiale che è fatta di relazioni in divenire e comprende un alternarsi delle forme di ciò che noi siamo abituati a chiamare ‘apirazione alla giustizia’.
Ne consegue che non esiste un unico essere alto di riferimento ma un divenire che tende a soddisfare al meglio tutti i membri della comunità, umana e degli altri animali, risolvendo parzialmente i conflitti di interessi. Questo approccio permette di rivalutare il momento in cui le interazioni tra gli esseri sensienti era originariamente caratterizzato da un ambiente non atropizzato, al contrario della teoria universale dell’ugualianza data dalla somma dei diritti che richiede, smpre a mio avviso, l’articolazione della civiltà umana, più sostenibile o meno che sia.
Tuttavia una rinuncia alla modifica della morfologia terrrestre alla ricerca della forgiatura di una cultura che io chiamo della “gestione” non implica un azzeramento delle facoltà di ricerca etica tipiche della nostra specie, perchè mantiene tale ricerca attuabile a livello spirituale (niente paura…non religioso…) come indicazione per la pratica…non con il progresso tecnico per intenderci e ribadire il punto essenziale!
Quando l’amico Camensh dice che libri e scacchi non sono il problema incorre secondo me nell’errore di considerare neutrale l’apparato produttivo che vede oggetto della sua considerazione due appendici, tralasciando invece la progenie molesta: la megamacchina che ingloba la tecnica, la politica e l’economia in un solo mostro che attraverso l’illusione di innocenza svia, corrompe, domina.
Dispongo di diversi scritti di critica alla tecnica, alla tecnoscienza imperante, che non hanno versione su internet; nei giorni prossimi per espletare il mio incompleto discorso provvedo a trascriverne dei passaggi…ovviamente sempre per progredire nelle analisi e non per predicare alcun idilliaco rifugio nel passato.
Non mi risulta invece che per gli antropologi le comunità tribali fossero organizzate in clan in cui il capo disponeva delle risorse individuali per risolvere le problematiche della sussistenza, al contrario sembra che godessero della libertà di affrontare il quotidiano mettendo in campo la cooperazione e la convivialità.
Come dire…che i libri e gli scacchi puntino a ricostituire l’essenza della comunicazione orale diretta e non la soddisfazione del tempo fintamente libero, in due parole la loro soppressione.
Ciao Davide,
Attendo quindi che tu trascriva i testi di cui parli perché ritengo possano essere importanti ed utili per tutti noi.
Ti ringrazio per aver meglio chiarito il tuo pensiero, e per ora mi limito a prenderne atto in attesa di ulteriori testi.
Una sola cosa ci terrei a specificare: le comunità tribali a cui tu fai riferimento evidentemente sono quelle umane del Paleolitico inferiore denominate “semplici popoli”, ossia piccoli gruppi di individuo (20-40) organizzati e legati da legami di parentela che hanno dato vita a strutture sociali dove nessuno dei due sessi ha preso il sopravvento e dove vigeva un rapporto di collaborazione. In questi termini hai ragione, ma vorrei farti notare anche che gli studiosi spesso parlano di un continuum evolutivo anche sotto l’aspetto dell’evoluzlione sociale e culturale umana. Vale a dire che tutto è collegato e consequenziale. Se poniamo che questa visione sia vera – ed io credo che lo sia – allora il germe della società verticistica, patriarcale, repressiva e violenta successivamente sviluppatasi era già presente (e non potrebbe essere altrimenti) nella società dei semplici popoli. Ciò non significa che non sarebbe bello recuperare i principi di quello stile di vita.
Il mio discorso è sempre e comunque da considerare come uno stimolo che magari potrebbe essere di una qualche utilità per meglio comprendere ciò che bisogna considerare.