Matteo Meschiari è l’autore di un articolo pubblicato sul blog Pleistocity dal titolo “Cinque tesi contro l’antispecismo“, leggendolo non ho potuto fare a meno di notare una serie d’imprecisioni e di errori concettuali, che vorrei evidenziare.
L’articolo oltre a trattare di antispecismo – materia per me della massima importanza – riporta come immagine di apertura una nota pubblicità antispecista di Campagne per gli animali dal titolo “CHI mangi oggi?” della quale sono co-ideatore. A maggior ragione, quindi, mi sono sentito di intervenire.
Quanto esporrò è chiaramente una posizione personale e non vuole essere un attacco o una critica all’autore, ma ha l’unico fine di fornire il punto di vista di chi non si ritrova nella descrizione generale che Meschiari fa dell’ambiente antispecista e che – pur riconoscendo che sono in atto pericolose derive – ritiene che l’enorme confusione creata sull’argomento, provenga dal fatto che non si è voluto a oggi fare chiarezza sui principi che contraddistinguono la filosofia antispecista. Per tale motivo molti gruppi e singoli si proclamano antispecisti senza sapere cosa nella realtà significhi, agendo di conseguenza secondo modalità non ascrivibili all’approccio antispecista.
Ma passiamo ad analizzare i cinque punti:
1) ESCLUSIVISMO: “Un certo antispecismo sta adottando a livello mediatico i modi e i toni del monologo politico e religioso. Profondamente differenziato al suo interno, trova compattezza nella dialettica universale del “noi” contro “loro”. Linguaggi (e sempre più spesso atti) propri dello scontro violento aggirano il confronto razionale e trasformano la riflessione plurale in una campagna di adesione emotiva (“o con noi o contro di noi”). Microfascismo verbale e squadrismo in rete stanno sostituendo al dialogo civile i toni unilaterali dell’accusa, del giustizialismo, del gregarismo, del fanatismo e dell’intimidazione. La costruzione violenta, con toni vendicativi, a volte apocalittici, ricalca l’antinomia “eletti-dannati”.”
Per prima cosa sarebbe utile capire quale sarebbe il “certo antispecismo” cui Meschiari fa riferimento, in modo da comprendere appieno la problematica sollevata. Ma – come esposto nella premessa – è molto probabile che si faccia riferimento a soggetti e a gruppi che pur definendosi antispecisti, non hanno compreso affatto cosa significhi esserlo. Ad ogni modo – ragionando per assurdo e ammettendo che si stia parlando di singoli e gruppi antispecisti – non esistendo un vero e proprio movimento antispecista in Italia, non esistono nemmeno soggetti o realtà realmente in grado di rappresentare le molteplici anime antispeciste; per tale motivo risulta impossibile affermare che “un certo antispecismo” stia adottando una dialettica universale capace di compattare il multiverso antispecista: in sunto verosimilmente alcuni soggetti o gruppi che si definiscono erroneamente antispecisti adottano detti toni e modi, non di certo il mondo antispecista che, in ogni caso, a oggi non possiede una dialettica univoca.
Lungi dall’aver trovato – purtroppo – una reale compattezza, l’antispecismo è però chiaramente un’idea che rappresenta una pesante rottura con l’esistente, pertanto la logica della contrapposizione risulta del tutto inevitabile a prescindere dal linguaggio utilizzato (anche il più dialogico e conciliante), lo sarebbe in egual modo se stessimo parlando ad esempio di antirazzismo in una società razzista.
Per quanto riguarda la violenza (verbale o fisica) c’è da specificare una questione che evidentemente Meschiari non ha preso in considerazione nel valutare i soggetti a cui fa riferimento: un atto violento è un atto di sopraffazione, mediante il quale s’impone con la forza il proprio volere ad altri. L’attivista antispecista si batte contro ogni pratica di controllo, dominio, violenza, coercizione che contraddistingue la società umana specista; qualora adottasse per ottenere i fini che si è prefisso i medesimi metodi della società che intende rivoluzionare, sconfesserebbe l’ideale antispecista avallando logiche gerarchizzanti da “vincitori e vinti”, che peraltro non farebbero che perpetuare il modello sociale specista dominante.
Per quanto affermato è chiaro che la violenza diretta contro qualsiasi essere vivente, non fa parte del bagaglio di strumenti di lotta antispecisti, come non ne fanno parte atteggiamenti fascisti, microfascisti e squadristi.
2) IRRAZIONALISMO: “Nonostante l’antispecismo cerchi puntelli scientifici (evoluzionismo, neuroscienze, fisiologia), il suo discorso resta essenzialmente una narrazione etico-morale. In quanto racconto, la sua efficacia non è data dal grado di veridicità o ragionevolezza, ma dalla capacità di trasformare lo spettatore in personaggio. Per operare questa trasformazione identitaria deve fargli sospendere il pensiero razionale, in due modi: cercando una falla emotiva e usando una logica fallace. L’emozione e la fallacia discorsiva aprono il terreno al pensiero mistico e allo spiritualismo. Per questo l’antispecismo è permeabile alle subculture e alle filosofie alternative (new age, teosofia, complottismo, sciamanesimo, millenarismo, animismo pop, ecc.).”
L’antispecismo veicola una nuova etica infra e interumana ed è su tali basi che ci si dovrebbe confrontare. L’etica è una branca della filosofia morale che cerca di sondare razionalmente i comportamenti umani per assegnare loro uno status deontologico. Chiaramente anche l’antispecismo ha una sua narrazione etico-morale che deriva dalla sua impostazione filosofica: se considerassimo tutto ciò semplicemente “irrazionale” perché non sufficientemente avvalorato da prove scientifiche, la quasi totalità dell’enorme lavoro prodotto dalla filosofia morale dalla sua nascita ai giorni nostri, potrebbe essere liquidata come tale. C’è da notare inoltre che l’antispecismo si oppone a una visione del mondo ugualmente basata su presupposti morali (lo specismo): l’idea che l’Umano sia superiore a qualsiasi altro essere vivente e che abbia pertanto il diritto di sfruttare, schiavizzare e uccidere a proprio piacimento, non appare obiettivamente una posizione “ragionevole”, né si può dire che fondi le sue premesse su solide basi scientifiche dato che sostanzialmente parliamo di un apparato concettuale di natura ideologica. Anzi si può anche affermare che proprio in virtù di tale impostazione, si sia sviluppata molta della ricerca scientifica antica e moderna contraddistinta – in tutta evidenza – da una spiccata caratteristica antropocentrica.
L’antispecismo rappresenta un’elaborazione logica, razionale e profondamente critica della società umana esistente e non ha a che fare con pensieri mistici o similari, ma conferisce grande dignità e fondamentale importanza anche al versante emozionale ed empatico della questione animale. Più in generale una posizione morale non necessita di un puntello scientifico, il fatto che vi siano o meno riscontri scientifici utili, non cambia un’idea basata su un elemento quale la giustizia interspecifica.
Sarebbe inoltre opportuno distinguere tra misticismo e spiritualismo e non fare di tutta l’erba un fascio.
3) FIDEISMO: “Nonostante le minuziose argomentazioni pseudo-razionali, di fronte all’impossibilità di fornire prove decisive ad assunti razionalmente insostenibili (“la sofferenza della zanzara e quella del vitello sono identiche”) si richiede all’antispecista un atto di fede finale. Questo arriva o per adesione emotiva (“sento che è giusto così”) o per ragionevole dubbio (“non lo so ma forse è così”). In entrambi i casi il discorso antispecista si spinge fino a un certo punto, dopodiché è la coscienza del singolo che interviene per suggellare il patto. Questo stacco dal pensiero alla fede non accade una volta per tutte, ma diventa un modo ricorrente di impostare e risolvere i problemi, anche quelli che nascono dal confronto con le idee altrui.”
L’antispecismo non afferma in linea generale che la sofferenza della Zanzara sia identica a quella di un vitello, ma che entrambi sono esseri senzienti e che in quanto tali sono capaci di provare a loro modo sofferenza e dolore, come anche una vasta gamma di altre sensazioni e di sentimenti. Ad affermare quanto esposto vi sono molte evidenzie scientifiche; ma anche se ciò non accadesse (vedasi il punto 2), la semplice esperienza diretta individuale, l’osservazione e la conoscenza degli altri individui animali (e aggiungerei anche il semplice buonsenso), basterebbero per fornirci tutte le motivazioni sufficienti e necessarie a sostenere la visione antispecista. Pertanto parliamo di dati oggettivi che possono essere utilizzati per elaborare una teoria della relazione con gli altri esseri senzienti – e più in generale con tutti i viventi – utile per riconsiderare le nostre azioni quotidiane. Il punto non è l’equiparazione della sofferenza, ma il diritto di ogni singolo individuo senziente – in questo caso specifico – a poter vivere liberamente e pienamente la propria esistenza secondo le proprie caratteristiche specie-specifiche che differiscono da quelle degli altri.
In conclusione la domanda che può essere formulata è: se come Umano posso evitare lo sfruttamento, il dominio, la sofferenza e la morte di un altro essere senziente o più in generale vivente, perché non farlo controllando le mie attività in modo da diminuire l’impatto della mia esistenza su quella degli altri?
In tutto ciò non c’è traccia alcuna di atti di fede, ma solo una lucida constatazione – la meno antropocentrica possibile – del nostro impatto sugli altri e sul pianeta.
L’unica “adesione” di cui si dovrebbe parlare potrebbe essere “nel dubbio mi astengo”, ossia un comportamento precauzionale dettato da tolleranza, rispetto e saggezza.
Il reale problema dell’antispecismo non è quello proposto da Meschiari (il discorso antispecista si spinge fino a un certo punto), bensì il contrario: il discorso antispecista si può espandere secondo modalità e con vastità che attualmente ci sfuggono a causa dei nostri indubbi limiti culturali.
4) POPULISMO: “L’antispecismo si è dotato di un apparato di propaganda in cui il nemico è rappresentato come un mostro che attenta alla perfezione e alla purezza dell’animale (“i carnivori sono nazisti/barbari/pedofili”). Questa propaganda non produce solo degli enunciati retorici ma incoraggia delle abitudini cognitive. Alla lettura critica dei fenomeni si sostituisce il coinvolgimento affettivo, all’analisi del problema si preferisce puntare sull’empatia. Indignazione, tenerezza, pietà, orgoglio, rabbia sono la grammatica elementare degli affetti che guida il trattamento delle informazioni. Enormemente amplificato dai social network, il sistema ricattatorio dell’emozione sostituisce alla lettura lenta l’opinione frettolosa.”
Quanto affermato nel punto 4 assomiglia più alla descrizione di alcuni comportamenti tenuti da sedicenti animalisti sul web, non certo a quanto afferma e propaganda l’antispecismo: confondere le due cose è un errore che si commette purtroppo spesso.
5) ANTROPOCENTRISMO: “Nonostante il lavoro principale dell’antispecismo sia quello di smantellare il primato ontologico e sociale dell’uomo, resta comunque l’uomo a dover guidare la preconizzata transizione da una società di sfruttamento a una società più giusta per gli animali. Nonostante questa transizione debba passare attraverso un’attribuzione di maggiori e uguali diritti agli animali, resta comunque l’uomo a dover fare il garante di questo nuovo sistema etico-giuridico. Da un lato si parla di antiumanesimo e di postumanesimo, dall’altro l’umano illuminato e paterno (alcuni, non tutti…) è un amico-collaboratore indispensabile. Da qui l’altra faccia dell’antropocentrismo: il nichilismo apocalittico (“basta umani, solo animali”).”
Il lavoro principale dell’antispecismo è esattamente quello indicato nel punto 5 (lo smantellamento del presunto primato ontologico dell’Umano sugli altri Animali), il fatto che sia a carico dell’Umano il lavoro per cambiare la sua società è del tutto ovvio: siamo noi come specie i responsabili dello stato delle cose e di questo enorme macello quotidiano. Siamo noi, pertanto, a dover riparare ai danni causati dalle nostre attività (che abbiamo sino a oggi svolto in perfetta solitudine e autonomia) autoregolamentandoci, non si capisce perché non dovrebbe essere così. Non si tratta pertanto di autoreferenzialità, ma di assunzione di responsabilità: la questione è ben diversa. L’antispecismo per avviare una seria modifica dei rapporti tra Umano e altri Animali, prevede una profonda modifica della società umana (qualcuno lo chiama antispecismo politico, ma tale distinzione ha ben poco senso, perché non può esistere un antispecismo non politico); in quanto appartenenti a tale società, siamo noi Umani a dover di conseguenza prendere provvedimenti in merito, gli altri Animali semplicemente non fanno parte della nostra società, anche se ne subiscono le conseguenze e la rendono possibile.
L’Umano deve essere garante esclusivamente delle proprie azioni, quella antispecista è una pratica di consapevolezza e autocontrollo, guidata da solidi principi morali che vengono applicati a livello individuale fino a estendersi alla società umana intera.
Ciò a cui aspira l’antispecismo è una nuova morale condivisa che possa portare, per esempio, alla fine dello sfruttamento di un essere senziente non perché proibito da una legge o da un sistema sociale (peggio ancora uno Stato etico) che punisce chi trasgredisce, ma perché percepito come un atto ingiusto dal singolo individuo. In estrema sintesi parliamo di un sistema valorale che non necessita di sovrastrutture di controllo e di coercizione come l’attuale. In tutto ciò non c’è traccia di visioni paternalistiche che cozzerebbero contro l’ideale libertario antispecista.
L’antispecismo non può essere nichilista, misantropo, millenarista o apocalittico per il semplice motivo che anche l’Umano è una specie animale e come tale gode della stessa considerazione e dignità delle altre: la liberazione animale significa nella sua totalità anche liberazione umana.
Affermare il contrario non sarebbe una posizione antispecista.
Infine Meschiari scrive:
“Abbattere con queste premesse le barriere ontologiche tra uomo e animale significa avviarsi verso due scenari complementari che l’umanità ha conosciuto in precedenza: isolare una casta che prende decisioni politiche in nome di un ideale superiore ai bisogni e ai diritti del singolo; definire una nuova tassonomia operativa che separa animali buoni che decidono (antispecisti) e animali cattivi da punire, rieducare, sopprimere (specisti). L’infiltrazione palese delle destre radicali nel movimento antispecista dovrebbe allarmare tutti. Raramente però l’antispecista di sinistra si impegna a prendere le distanze, perché, per la causa, il fine giustifica i mezzi.”
Sicuramente l’abbattimento, con queste premesse, delle barriere ontologiche tra Umano e Animale porterebbe agli scenari delineati dall’autore dell’articolo, il problema è che tali premesse sono errate per i motivi già discussi in precedenza. L’antispecismo non mira all’istituzione di caste, gruppi di potere o similari all’interno della società umana, per i motivi discussi ai punti 1 e 5.
L’infiltrazione delle destre nel nascente movimento antispecista è un fenomeno (esistente) dovuto a molteplici fattori elencati diverso tempo fa in una piccola pubblicazione gratuita reperibile al seguente indirizzo web: www.veganzetta.org/antispecisti-di-destra
Tengo inoltre a chiarire che il fine, a mio avviso, non giustifica mai i mezzi, bensì i mezzi adottati rispecchiano, e divengono nella pratica, il fine stesso.
Per quanto esposto in precedenza ritengo in conclusione che Meschiari abbia avanzato delle critiche sicuramente valide e fondate se destinate a determinate realtà attualmente attive in rete o sul territorio (vedasi i punti 1 e 4), che però non possono in alcun modo essere considerate antispeciste.
Adriano Fragano