“Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita” questa è la frase che introduce l’EXPO (Esposizione Universale) 2015 che si svolgerà a Milano dal 1 maggio al 31 ottobre 2015.
Tra le protagoniste dell’evento, oltre alle varie organizzazioni internazionali del settore e multinazionali del settore alimentare e non solo, ci sono due realtà italiane che è interessante segnalare per le tematiche legate al cosiddetto benessere animale, che stanno adottando per avvolgere le loro attività di una patina etica e una facciata “green”: Slow Food (partner dell’EXPO 2015 insieme a incredibili testimonial come Vandana Shiva e Jeremy Rifkin) e Coop Italia.
Di seguito alcuni interessanti estratti del dossier: “Nessuna faccia buona, pulita e giusta a EXPO 2015” a cura del collettivo Farro&Fuoco – alimenta il conflitto:
Slow Food e benessere animale
“Slow Food è attivamente impegnata da molti anni nella promozione di un approccio olistico al cibo e alla agricoltura: le buone pratiche a vantaggio del benessere animale sono un aspetto fondamentale di questo approccio. Esse sono importanti non soltanto perché rispettano gli animali in quanto esseri senzienti, ma anche perché costituiscono un valore aggiunto per gli allevatori, i consumatori e l’ambiente”
Il benessere animale secondo Slow Food, Documento di posizione, settembre 2013
“Nel menù di Slow Food, da molti anni, non c’è solo il pesce, ma anche l’ottimismo e la passione”
..dal sito di Slow Food, alle pagine relative a Slow Fish
Negli ultimi tempi, nel lavoro di comunicazione e formazione dei suoi tesserati e dei suoi partner, Slow Food si è affiancata alla schiera -sempre più ampia- di gruppi d’opinione e aziende di mercato che hanno deciso di prendere parola in merito alla questione dell’animal welfare; il “benessere animale” infatti sta acquisendo importanza all’interno del discorso su produzione e consumo animale, poiché alcune riflessioni a matrice animalista e altre più diffusamente ambientaliste, hanno fatto breccia nelle pratiche di consumo di alcune fasce di popolazione, in primis tra chi detiene un maggiore capitale culturale ed economico, per cui un soggetto importante per la cultura gastronomica come Slow Food, non può permettersi di dare indicazioni vaghe. Consapevole che la sua visione e le sue scelte si riverberano su ogni aspetto del suo operato e dei suoi interessi, tacendo o nicchiando, correrebbe il rischio di far perdere importanza al suo intero messaggio. E’ altresì vero che questo “esporsi” è avvenuto in modo meno strutturato e massivo rispetto a quanto fanno società e gruppi dell’alimentazione e della ristorazione. Una differenza che trova fondamento nella diversa traiettoria di soggetti profit, come ad esempio Coop oppure Eataly, e no-profit, come appunto Slow Food: il discorso sul “benessere animale” è infatti una delle nuove frontiere delle campagne di marketing, in cui un animalismo annacquato serve per sciacquare dalle coscienze eventuali dubbi etici e corroborare il consumo e l’acquisto. Slow Food non ha la mission nella vendita né guerreggia tra competitors nel mercato del cibo; fa invece lavoro culturale e formativo, aggrappandosi ad alcuni concetti chiave: tra questi, il concetto di “tradizione”, che precede e assorbe, ad esempio, quello di “benessere animale”, perché trattasi senza indugi di “tradizione antropocentrica” nella quale la scala di dominio e importanza tra esseri viventi è già definita; e altrettanto fanno i concetti di “salubrità” e “desiderio” che posizionano l’essere umano come soggetto al centro del progetto di ricerca del piacere, a scapito di chi invece figura come oggetto, sia esso pianta, frutta o altro essere vivente. In quest’ottica, lo slittamento di senso da “benessere animale” a “prodotti” che effettua Slow Food è, comunque, tristemente trasparente, mostrando le strutture logiche di un discorso basato su riproposizione o invenzione di elementi storici e sociali, tipologia di allevamento e qualità organolettiche: se in un primo momento sembra emancipare l’animale non umano dallo status di oggetto, riconoscendone quindi il diritto al benessere in quanto individuo e soggetto, un attimo dopo indica quel medesimo essere con termini che, per chi li usa, non sono altro che sinonimi: prodotto, risorsa, alimento o ingrediente. Possiamo comprendere quanto detto attraverso un esempio. In una conferenza tenutasi durante il festival “Terra Madre” nel 2012 si citò uno studio di Eurobarometro secondo cui “il 70% dei consumatori esprime frustrazione per il fatto di non sapere niente delle condizioni in cui vengono allevati gli animali” (attenzione, non frustrazione perché gli animali sono allevati): l’attenzione dei partner profit di Slow Food andò probabilmente alle stelle, in ansia per trovare il modo per rassicurare questa nuova preoccupazione dei clienti, che avrebbe potuto raffreddare la loro predisposizione al consumo; l’attenzione dei tesserati di Slow Food probabilmente andò invece al banco salumi, soddisfatti di conoscere personalmente il macellaio di Correggio che aveva portato gli insaccati. Restando in questo campo, ma affrontandolo da un punto di vista diverso e aiutandoci poi con un altro caso esemplificativo, introduciamo nella riflessione il concetto di sostenibilità. Una parola e un concetto che Slow Food ama ripetere e che, come già scritto nella prefazione, riteniamo essere strumento e strategia con cui il capitalismo si vuole garantire la sopravvivenza in aree geografiche caratterizzate da mercati saturi e consumatori impoveriti, scettici e critici. Tra gli eventi che l’associazione di Bra organizza, uno in particolare unisce la pratica del consumo considerato consapevole e sostenibile alla vita animale: Slow Fish. In esso si dipana ampiamente la filosofia di Petrini e soci, che trovano in quella vastissima popolazione di vita che chiamiamo “pesce” e nell’immaginario ad essa collegata, un perfetto animale/prodotto e che raccontano la pesca come forza modellatrice di biografie umane, come portatrice di istanze culturali, sociali ed economiche, sia per il tessuto locale che per il mercato. A ben guardare, però, tanto modellatrice non deve essere; è infatti lo stesso logo di Slow Fish a indicarci il contrario: non ci sono caratteristiche ittiche (squame? tentacoli? chele?) a determinare una figura umana, bensì un’impronta digitale che disegna il profilo stilizzato di un pesce. Come spesso accade, nei particolari si coglie il vero senso delle cose. Né sfugga un altro aspetto: la loro rappresentazione del pescatore insiste nel nascondere un mestiere che contribuisce a togliere vita alla già moribonda situazione dei mari, sollecitando invece il ricordo di mestieri nobili e quasi scomparsi, come se stessero descrivendo le statuine di un presepe, ricco di lavori valorizzati dalla tradizione specista. Una riflessione che deve inserirsi nello stato attuale di biodiversità degli oceani: acque inquinate, specie estinte e altre in via di estinzione, fondali devasti da tecniche di pesca indiscriminate, tonnellate di catture rigettate moribonde in mare considerate “accessorie” e “inutili” a fronte di pochi chilogrammi di determinate specie di pesce richieste dal mercato. Stante questa la situazione, conosciuta e taciuta, qualunque azienda si occupi di pescato, a maggior ragione se multinazionale o grossa flotta, ha dovuto iniziare a parlare di sostenibilità. Com’è dunque possibile che Slow Fish voglia estendere democraticamente a tutti il diritto a mangiare il pesce quando i mari sono ormai svuotati e sempre più specie, secondo i periodici allarmi degli esperti, sono ogni mese a un passo dall’estinzione? Propendiamo per un’ipotesi: l’impalcatura teorica di Slow Fish riprende alcuni temi interni all’animal welfare col fine di estenderlo alla vita selvatica sotto il cappello concettuale della sostenibilità ambientale, allargando lo spazio del mercato alla vita non addomesticata. E’ evidente quanto questa interpretazione del concetto di benessere animale, che già Slow Food fa fatica a esprimere per gli animali terrestri, sia praticamente inesistente per quanto riguarda i pesci, ma sempre, e in modo ancora più marcato, nella prospettiva del consumatore e della salubrità del prodotto, come venne esplicitato durante Terra Madre del 2012 semplicemente dal nome di una conferenza: “Benessere animale, una tutela anche per produttori e consumatori”. Anche col rischio di uscire fuori tema per qualche riga, non possiamo tacere il nostro dolore e la nostra rabbia sull’argomento. Il disconoscimento dell’animale in quanto essere senziente applicato all’ambito marino diventa totale. Sappiamo quanto la sofferenza inflitta alle popolazioni marine sia fra le più acute e fra le più ignorate. Forse perché sono così lontani dalla nostra natura biologica, forse perché non emettono suoni riconoscibili all’orecchio umano, il risultato è il medesimo: l’empatia per questi animali è pressoché assente. Tanto che la loro cattura viene quantificata in peso e non per individui. Tanto che una fascia di persone che si dichiarano vegetariane non risparmiano i pesci dalla loro alimentazione, come se fosse un ingrediente a metà fra l’animale, la pianta e il fungo. Ma le loro sofferenze sono molteplici. Schiacciati nelle reti sotto il peso degli altri pesci catturati, feriti per la decompressione nella salita repentina dalle acque profonde, arpionati, infilzati e una volta ammassati sulle navi nelle stive subiscono una lenta fine per soffocamento. Oppure muoiono durante la loro trasformazione per sventramento, filettatura o congelamento mentre sono ancora coscienti e in grado di provare dolore. O infilzati negli ami utilizzati come esche guizzanti per prendere pesci più grandi. Questa è la sorte che un trilione di specie marine – o per capirsi meglio visivamente 1.000.000.000.000 – subisce ogni anno per scopi alimentari nei nostri mari sempre più vuoti e inquinati. E, dunque, perché parlare di pesce buono, pulito e giusto?
Coop e benessere animale
“Per Coop la salvaguardia dell’ambiente, del potere d’acquisto e l’attenzione per la qualità della vita, sono pilastri della propria ragione d’essere. Per Coop migliorare le condizioni di allevamento significa non solo garantire agli animali allevati una vita degna d’essere vissuta, ma anche migliorare la loro salute, con conseguente innalzamento della qualità del prodotto, sia dal punto di vista della sicurezza, sia della qualità organolettica e nutrizionale. […] Siamo orgogliosi di ricevere questo riconoscimento che testimonia il nostro impegno concreto, fatto da progetti e azioni tesi a migliorare le condizioni di vita degli animali”.
Claudio Mazzini, Responsabile Sostenibilità, innovazione e valori di Coop Italia, 25/10/2012
“Dall’impegno di Coop traggono beneficio ogni anno, vivendo una vita migliore, quasi 30 milioni di animali da allevamento. Vorrei altresì ricordare che Coop ha anche effettuato importanti campagne di comunicazione a favore del benessere animale, una cosa fondamentale in un Paese come il nostro, dove l’informazione al consumatore su questa tematica spesso scarseggia da parte dei mezzi di informazione”.
Annamaria Pisapia, Direttrice Italia di Compassion in World Farming, in merito al premio attribuito nel 2012
Uno strano premio quello vinto da Coop, tanto che se non fosse contemplata l’ipocrisia come strategia di marketing, si potrebbe parlare di schizofrenia dell’azienda. Mali del resto ben noti e radicati nel mercato, come hanno dimostrato in modo più che esauriente già un decennio fa Achbar e Abbot in The Corporation. Coop è ormai impegnata da anni in una massiccia operazione di immagine che trae sempre più energia da un dichiarato impegno nel campo dell’animal welfare. Il benessere animale, un nuovo campo del marketing in cui, da un lato, ti mostri come l’allevatore buono e compassionevole nei confronti delle tue macchine da latte viventi e dei pezzi di carne all’interno del bancone, dall’altro sollevi il consumatore dubbioso da qualsiasi senso di colpa che possa sorgere in lui e al tempo stesso lo rassicuri sulla maggiore salubrità dei tuoi prodotti che sono vissuti meglio rispetto a quelli di aziende meno scrupolose. Così sono tutti contenti: l’acquirente che si sente più sano e più etico e l’azienda, più green e più ricca. Questa strategia ha portato Coop a vincere un doppio premio nel 2012 attribuito dalla Compassion in World Farming (CIWF), una sedicente associazione per il benessere animale fondata nel 1967 da un allevatore di mucche da latte, già questo un ossimoro di partenza. Un circuito innescato fra controllati e controllori che si autoalimenta e si autosostiene sulla pelle e le penne degli animali negli allevamenti. Come se uno schiavista decidesse di fare catene un po’ più lunghe e cibo più nutriente per migliorare le performance dei propri prigionieri e conseguentemente anche la propria immagine al mercato degli schiavi. Col supporto di un’associazione che premia chi infligge un po’ meno frustate e allarga di qualche centimetro le celle di detenzione, ma senza mettere in nessun modo in dubbio l’eticità dello schiavismo, anzi, la sua esistenza. È quindi una ulteriore via per incrementare i guadagni. Per noi in realtà è solo un gioco senza scrupoli in cui venire supportati da associazioni che si dichiarano animaliste e che effettuano un monitoraggio delle condizioni di schiavitù degli animali negli allevamenti; associazioni come quella appena citata che si autoproclamano giudici del benessere animale elargendo premi alle aziende che, secondo i loro parametri, hanno apportato benefici agli esseri viventi loro prigionieri: qualche centimetro in più nelle gabbie, un po’ meno cibo tossico, qualche posatoio sparso qua e là negli affollatissimi capannoni per volatili, e il premio è assegnato. Il secondo step è avere buon ufficio marketing e comunicazione e la campagna per i prodotti animal friendly è pronta per debuttare sul mercato. C’è da chiedersi in effetti quali siano questi parametri e come abbiano fatto McDonald’s, Burger King UK o Amadori a rientrare tra i vincitori, aziende che negli ultimi decenni non hanno fatto altro che incrementare la somma delle sofferenze e delle morti nel regno animale per riempire i loro scaffali, i loro ristoranti e le loro casse. Un assunto comunque è chiaro: il marketing nel settore della vendita di cibo nella GDO impone di inserire quelle due parole magiche -benessere animale- per attrarre il consumatore che si dichiara consapevole e rassicurarne al tempo stesso la coscienza; è necessario per chi vuole emergere fra i protagonisti del nuovo corso del mercato capitalista dal nuovo volto green e sostenibile. La contraddizione dei termini animal welfare si evidenzia fin dall’inizio, dato che, facendo un paragone con gli umani da cui viene mutuata l’espressione, per i quali si parla di benessere in relazione a uomini liberi e lavoratori, in questo campo ci troviamo di fronte a vite fatte nascere con l’unico scopo di essere recluse e sfruttate contro la propria volontà, condotte al mattatoio il giorno in cui il loro corpo sfruttato non riesca più a produrre un solo centesimo di reddito per l’azienda. Può essere in qualche modo “una vita degna d’essere vissuta”, per riprendere le parole ufficiali di Coop al ritiro del premio, una vita considerata un prodotto, un oggetto, un ingrediente a cui si attribuisce un prezzo, una promozione e un posto strategico all’interno degli scaffali e dei surgelatori? Una vita vissuta all’interno di gabbie e recinti, fra catene, sbarre, senza nessuna libertà di muoversi e interagire liberamente con gli altri e instaurare legami sociali? Una vita che finirà nelle stesse gabbie fra gli stenti, lo stress più profondo o all’interno di mattatoi pieni di urla e sangue dei propri simili che pochi minuti prima l’hanno preceduta? E’ vita quella che si svolge nei nuovi lager etici che Coop propone? La Coop ha vinto nello specifico il premio Good Egg, perché ha dichiarato di non utilizzare più galline ovaiole vissute in gabbia, ma solo quelle a terra. In realtà la scelta segue le direttive della legge dell’UE sul benessere degli animali d’allevamento e fa un passettino avanti. Ma allevare le galline a terra non significa assolutamente per le galline libertà e spazi verdi, come l’espressione vorrebbe suggerire, ma ancora una volta affollamento, stress e ammoniaca delle proprie deiezioni, molto spesso dentro capannoni al chiuso dove non viene mai vista la luce del sole e dove è quasi impossibile sopravvivere a causa della tossicità dell’aria. Uno stress talmente elevato che ha portato gli allevatori delle galline ovaiole e dei polli da carne alla pratica del debeccaggio, il taglio di metà becco del volatile, per proteggere i propri prodotti dalle conseguenze dell’ansia e dagli scontri reciproci che 48 normalmente sorgono a causa delle condizioni di vita impossibili da sostenere e che possono portare spesso al cannibalismo. Ma c’è un altro aspetto fondamentale quando si parla di uova. Viene infatti tenuta spesso nascosta al consumatore la pratica ordinaria di sessazione per cui, alla schiusa delle uova, operai specializzati separano le future macchine da uova dai fratelli maschi che, non presentando alcun pregio per l’industria della carne, vengono scartati e triturati in appositi macchinari. Del resto è forse una sorte preferibile a quella delle femmine, che verranno sfruttate fino all’apice della produzione di uova e scartate a loro volta nel momento in cui questa inizi a calare, in genere dopo 2-3 anni. Per poi finire riciclate in hamburger e gustose polpettine ricche di additivi alimentari. Anche l’uovo più biologico che si voglia immettere nel mercato, accompagnato da immagini di galline che razzolano in prati sterminati, presuppone questa pratica di selezione commerciale. Nel frattempo Coop ha studiato bene le possibili critiche all’ostentazione del proprio volto pubblico di amante degli animali e cerca di rispondere anche a quest’ultima appena esposta: ha già dichiarato infatti di voler selezionare una nuova specie di polli “a duplice attitudine”. Niente più lo spreco del 50% dei pulcini maschi triturati a vuoto, spese inutili e effetti collaterali d’immagine, ma una specie che produca al tempo stesso femmine ovaiole e maschi adatti a riempire i banconi del pollame. Un altro passo avanti nella compassione e nuove idee per i prossimi bio-spot. Un simile scenario di reclusione e sovraffollamento si presenta anche per l’altro premio vinto sempre del 2012, il Good Chicken, attribuito perché l’azienda ha concesso un po’ di spazio in più e posatoi nei capannoni dei broiler, i polli da carne. Pieni di farmaci e antibiotici, medicine somministrate a tutti gli animali d’allevamento per prevenire e curare le malattie causate in primis da incroci e processi di selezione che ne indeboliscono il corredo genetico e di conseguenza le difese immunitarie, poi dalle malsane condizioni di detenzione cui versano, questi volatili vengono fatti ingrassare nel minor tempo possibile in modo che non si sprechi tempo e mangime: dopo 36 giorni, sufficienti in media a raggiungere il peso ottimale, vengono macellati in vere e proprie catene di smontaggio. I banconi Coop, naturalmente, ci presentano anche gli altri animali per cui non è stato ancora vinto nessun premio. Maiali nati da fattrici detenute costantemente in gabbie che impediscono loro di muoversi, allontanati dalla madre dopo pochi giorni, castrati, privati dei denti e della coda affinché anche loro non si feriscano a vicenda per lo stress e dell’ansia da detenzione insostenibili. Ingrassati per 6 mesi, vedranno per la prima volta il sole e respireranno un’aria non contaminata dalle proprie deiezioni solo nel tragitto che li porta dall’allevamento al mattatoio. Costrizione e sofferenza non risparmiano neanche la produzione del latte, spremuto da madri ingravidate artificialmente a cui viene strappato il figlio al momento della nascita, così che non si possa perdere nessun litro prezioso da immettere nel mercato. Perché vicino all’immagine della mucca felice nei prati, non viene mai ricordato al consumatore che anche questa femmina, per produrre il latte, deve partorire un figlio, così come avviene per la specie umana. Questi figli, sottoprodotti del latte, entreranno appena nati nel circuito del mercato: se femmine, saranno nuove macchine da latte come le madri, se maschi, verranno immessi nel business della carne bianca e tenera dei vitelli. Una carne bianca che tanto piace al consumatore soprattutto per l’aspetto candido ottenuto grazie alla mancanza di ferro indotta volutamente dall’allevatore, proprio per mantenere quel colore che tanto la rende pregiata alla vista. Una mancanza di ferro che porta il cucciolo a leccare in modo ossessivo le sbarre della gabbia in cui verrà detenuto per circa 6 mesi in modo che non possa muoversi e modificare le caratteristiche della sua carne, prima di essere trascinato anche lui al mattatoio. Coop investe costantemente nella sua immagine di compassionevole paladina dell’animal welfare e ad alimentare. Tanto che, in un nuovo spot per il circuito televisivo, si identifica con la bambina protagonista, figlia di una famiglia di campagna, che per ogni secondo dello spot abbraccia tutti gli animali della fattoria: cani, gatti, ma soprattutto galline ovaiole, polli, bovini da carne, vitelli dalla carne bianca, mucche da latte e anche il maiale alla fine. Certo un po’ più recluso rispetto agli altri, ma è pur sempre un maiale anche per loro. Manca però l’ultimo passaggio, quello in cui la Coop-bambina, nel suo abbraccio di morte, porta quei nasi umidi dai respiri che si condensano nell’aria verso il mattatoio stipati nei carri bestiame e poi via, di corsa verso i banconi dei supermercati. Un’omissione che aiuta l’immagine dell’azienda e che continua a far dormire sonni tranquilli al compiaciuto consumatore dei piccoli passi. Questo è il compassionevole e verde futuro di Coop.
L’animal welfare non esiste
“…E i vincitori sono… I veri vincitori sono gli oltre 337 milioni di animali da allevamento che ogni anno traggono beneficio dagli impegni dei vincitori dei nostri premi Benessere Animale.”
..dal sito di Compassion in World Farming, ciwf.it
Davvero, come dichiara Compassion in World Farming in merito alle proprie attività e a quelle delle aziende con le quali collabora, i veri vincitori sono proprio gli animali? Alla fine di quest’analisi del marketing di Coop che strizza l’occhio al consumatore sensibile, resta da fare un’ultima riflessione. Se si parla di vite, di libertà, di centimetri in più nelle gabbie e di posatoi, della necessità di interazione fra simili, si riconosce agli animali il diritto al benessere e di conseguenza si dovrebbe presupporre anche quello alla vita. Ma è evidente che l’unica forma di reale benessere per gli animali andrebbe a cancellare qualsiasi tipo di allevamento, in totale contrasto con il profitto delle aziende e le scelte della maggior parte dei consumatori. Per questo motivo tutti i passi avanti dichiarati in materia non interferiscono in nessun modo con le esigenze di produttori e acquirenti; è quindi lì il campo su cui le aziende decidono di lavorare, creando un nuovo immaginario che possa coprire la solida struttura dello sfruttamento animale. Per questo motivo, percorsi avviati da aziende come Coop e da associazioni pseudoanimaliste conniventi appaiono ancora più insidiosi e nocivi di quelli di un comune allevamento intensivo. Perché in questo modo, edulcorando qualche aspetto della dolorosa prigionia o dell’uccisione dell’animale agli occhi dei consumatori, non si fa altro che legittimare ancora di più l’esistenza delle gabbie e dei mattatoi. Tutto continua ad esistere, ma il più piccolo dubbio etico che affiora per un momento davanti al bancone della carne si può spegnere attraverso l’etichetta del premio vinto dall’azienda. E chissà, come ci suggerisce esplicitamente CIWF, se il consumatore arriverà pure a pensare che quel pezzo di carne dentro il cellophane dovrebbe anche ringraziare chi l’ha portato fin lì, dato che è lui, l’animale, il vero vincitore di tutto questo impegno profuso. Il consumatore, per parte sua, sicuramente si sentirà fiero dell’acquisto e forse, anche lui, un po’ un benefattore. Questo tipo di processo si avvale della pratica ormai comune dello svuotamento del significato delle parole, per cui è possibile mistificare la realtà e parlare di benessere in uno stato di privazione totale della libertà, in una vita che seguirà e terminerà secondo i tempi umani del business. L’arroganza in queste pratiche è talmente evidente che addirittura nei convegni si è arrivati a parlare del diritto -per ogni animale d’allevamento- di avere “cinque libertà”. Peccato che dietro alle parole ci sia solo dolore e sfruttamento e nessun animale allevato potrà mai provare per tutta la propria vita l’unica libertà esistente che è quella di poter gestire la propria vita secondo i propri desideri. Attraverso questo processo di reinvenzione della realtà è così possibile affiancare alle parole risemantizzate immagini finte e ricostruite che presentano animali felici e liberi; e anche sorridenti quando si vuole usare quell’antropizzazione che ne umilia ancora di più la reale condizione. E’ per questo che qualsiasi scelta fatta partendo dal cosiddetto “benessere animale” non potrà essere accettata se non in un’unica forma: abolire completamente l’allevamento e lo sfruttamento animale. Questo è l’unico benessere animale possibile, perché l’unica vita degna di essere vissuta è quella per cui si possa disporre della totale libertà di vivere al di fuori da gabbie, da tempi umani di produzione, da indagini di mercato, sbarre, catene e mattatoi. Non è accettabile una critica allo sfruttamento se si limita ad un allargamento dei luoghi di prigionia, a trasporti un po’ meno traumatici, alla ricerca di un metodo più efficace e indolore di abbattimento degli esseri viventi. Una critica è reale sono se propone la rinuncia totale del dominio dell’uomo sugli animali e finché non ci sarà una scelta da questo punto di vista, non sarà credibile né accettabile qualsiasi altra forma di fittizia e interessata compassione.