Fonte Laboratorio Antispecista
11 milioni di equini, 100.000 cani, 200.000 piccioni.
Si tratta degli animali che sono stati reclutati massicciamente nella Grande Guerra, per trasportare, trainare, combattere, informare. Le trincee hanno anche ospitato migliaia di animali domestici o da fattoria abbandonati dai civili in fuga e molti animali selvatici sono rimasti bloccati nel bel mezzo del fronte. Sfruttati e delle volte invece coccolati, hanno aiutato i soldati a sopravvivere all’inferno, ma mentre dei combattenti umani tutti si sono sempre ricordati, degli animali nessuno si ricorda mai.
Un ennesimo orrore dentro all’orrore della guerra.
Lo storico Eric Baratay, specialista delle relazioni uomo-animali, affronta nel suo penultimo libro, “Bêtes des tranchées. Des vécus oubliés” il tema della prima guerra mondiale dal punto di vista dell’animale, una prospettiva affrontata molto di rado dagli storici. Analizza il ruolo degli animali nella grande guerra, esplora e descrive le esperienze di cavalli, cani e piccioni “arruolati” nel confitto.
Leggere questo lavoro aiuta a ricordare come molti soldati e generali vivessero allora a stretto contatto con gli animali, cosa che nella nostra moderna concezione di guerra sembra quasi impensabile. La molteplicità di animali utilizzati durante il primo conflitto mondiale è legata a svariate esigenze degli attori umani del conflitto, il fenomeno ebbe proporzioni gigantesche, tanto che la mortalità di cavalli, muli e asini fu impressionante: 11 milioni sono caduti in guerra, per non parlare di piccioni e cani.
Questo pesante bilancio è stato ampiamente trascurato per quale motivo?
“Dopo la fine della guerra i veterani hanno prima festeggiato – dice Baratay – poi dal 1930 è iniziato il processo di cancellazione del ricordo. Questo processo per quanto attiene agli animali è stato rafforzato e accelerato dall’immagine che ci è pervenuta del conflitto. Carri armati, mitragliatrici, treni. L’animale appare come secondario mentre era in realtà fondamentale.”
Lo studio di Baratay è stato molto complesso. Raccontare la storia dalla parte degli animali richiede l’uso di archivi, ovviamente, creati e gestiti dagli uomini, cosa che rende l’indagine quanto mai difficoltosa soprattutto considerando l’epoca in cui si sono svolti i fatti di cui parla specificatamente Baratay, epoca in cui non si era ancora sviluppata in alcun modo l’attenzione verso la questione animale.
“Abbiamo utilizzato lo stesso approccio storico utilizzato dagli studiosi quando si tratta di descrivere la vita dei militari combattenti anche per gli animali, ma negli archivi su questo tema non c’è quasi nulla, sono archivi per lo più amministrativi che non parlano dell’esperienza degli animali. Gli archivi Vincennes francesi, ad esempio, hanno conservato i documenti relativi ai conduttori di cani, alle loro gesta, alle loro medaglie, ma i dati relativi ai cani che li hanno affiancati, sulla loro origine, la loro posizione o smobilitazione, sono scomparsi o non ci sono mai stati”
Per la sua ricerca, Eric Baratay ha fatto quindi affidamento sulla testimonianza diretta di combattenti, diari, lettere o romanzi.
Maurice Genevoix, ad esempio, nella sua raccolta di racconti sulla prima guerra mondiale, parla molto di animali. Molti soldati li citano nei loro diari, spesso lamentando il loro destino, come il cannoniere francese che li descrive come “fratelli minori”. A questo si aggiungono le preziose testimonianze dei veterinari.
I cavalli furono molto utilizzati dalle forze alleate e le perdite sono state altissime.
Con la prosecuzione del conflitto, alla fine del 1914, la Francia iniziò ad acquistarli in Canada, Stati Uniti e Argentina e il trasporto in barca per interminabili traversate atlantiche era estenuante. La Francia non aveva previsto un conflitto così lungo e non si era preparata all’evenienza con accordi specifici sui trasporti.
Un evento a cui inglesi erano meglio preparati rispetto ai francesi: “Avevano imparato la lezione nella guerra anglo-boera, in cui il 60% dei cavalli coinvolti era morto durante il viaggio in Sud Africa”, dice Eric Baratay. Per questo motivo gli inglesi si prepararono all’eventualità e presero accordi che permisero minori perdite.
Per i cavalli, il viaggio era un calvario. Ammucchiati sul ponte esterno a sopportare il freddo e le onde, ammassati in condizioni igieniche terribili. Questa negligenza è stata pagata a caro prezzo dai francesi che persero nel trasporto il 40% dei cavalli contro “solo” il 20% degli inglesi che avevano preventivato l’occorrenza.
Anche nel rapporto con i cani inglesi e francesi dimostrano di essere molto diversi: se questi messaggeri, sentinelle, guardie o bagnini sono per i francesi sei mezzi da utilizzare in massa, gli inglesi ne riconoscono la complessità e individualità e per questo ritroviamo documenti legati al rapporto con gli uomini.”
L’obiettivo dello studio di Baratay è quello di concentrarsi su un tema che solitamente viene considerato secondario. Céline ad esempio descrive le cariche di cavalleria con una certa vividezza: la polvere negli occhi, il suono dei cannoni, cavalieri che non fanno altro che stringersi sulla sella e affidarsi ai cavalli.
Baratay non si dedica solo ai cavalli o ai cani ma ricostruisce la storia di Vaillant, il famoso piccione di Fort Vaux, vicino a Verdun, utilizzato dall’inizio del 1916 per le comunicazioni tra le truppe e il comando.
Quel che colpisce in Baratay è l’utilizzo di un approccio alla storia non canonico, non antropocentrico, che pone l’accento sugli animali anziché sugli uomini in un ambito, la guerra, in cui per antonomasia non c’è spazio per altro se non per la prevaricazione, il sopruso e gli interessi economici.
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