Un articolo esplicativo sul alcune visioni e tendenze contemporanee interne all’antispecismo.
La divisione in fazioni e la tendenza a escludere approcci differenti al medesimo argomento, è uno dei maggiori problemi che si riscontrano attualmente in ambito antispecista. Pare sia ancora difficile concepire la “circolarità” e l’unicità dell’idea antispecista, vista la tendenza di vari autori, gruppi e associazioni a seguire sempre e solo una delle visioni che caratterizzano l’antispecismo, ignorando e spesso contrastando le altre.
Si ringrazia l’autore per aver citato Manifesto Antispecista.
Fonte: www.animalstation.it/specismo-antispecismo-classico-e-antispecismo-politico
Specismo, antispecismo classico e antispecismo politico
giovedì, 31 gennaio 2013
Facciamo un po’ di chiarezza (in breve) su specismo e antispecismo
Cos’è l’antispecismo? Quali sono i suoi obiettivi? Quali i suoi metodi per raggiungerli? Le risposte a queste domande non sono semplici e univoche. Tra gli attivisti per i diritti animali non vi è ancora concordanza su una definizione unanimemente accettabile della teoria e della prassi del movimento antispecista.
In questo articolo vorrei proporre in modo breve ed essenziale gli aspetti centrali della questione, senza pretese di fornire una ricostruzione rigorosa e ineccepibile, considerando anche che non sarebbe neppure possibile viste le diverse e differenti analisi e interpretazioni che spesso vengono proposte. Ma andiamo con ordine e cerchiamo prima di definire cosa sia lo specismo.
Cos’è lo specismo?
Il termine specismo compare per la prima volta nel 1970 in un opuscolo per contestare gli esperimenti su animali scritto dallo psicologo Richard D. Ryder, in cui sosteneva che il tentativo di ottenere benefici per la specie umana attraverso l’abuso di individui di altre specie è «semplicemente specismo e come tale si basa su ragioni morali egoistiche piuttosto che su ragioni razionali» [1]. Un anno più tardi, in un saggio del 1971, Ryder chiarisce ulteriormente il significato di specismo:
Nella misura in cui sia razza che specie sono termini vaghi usati nella classificazione delle creature viventi in riferimento soprattutto ai caratteri fisici, si può trovare un’analogia in questi due concetti. La discriminazione per ragioni legate alla razza, anche se fino a due secoli fa era in gran parte universalmente accettata, ormai è ampiamente condannata. Allo stesso modo, un giorno potrebbe accadere che le menti più illuminate aborriscano lo specismo così come noi oggi detestiamo il razzismo. L’irrazionalità in entrambe le forme di pregiudizio è identica. Se viene accettato come moralmente sbagliato infliggere deliberatamente sofferenza a creature umane innocenti, è conseguentemente logico considerare anche sbagliato infliggere sofferenza a individui innocenti di altre specie [2].
Lo specismo, nella definizione originaria di Ryder, è pertanto inteso, in un’analogia con il razzismo, come una forma di pregiudizio. Ma solo nel 1975 il termine specismo conoscerà la sua spinta verso una maggiore diffusione, grazie al popolare libro del filosofo Peter Singer Liberazione animale. Singer definisce lo specismo come «un pregiudizio o un atteggiamento di prevenzione a favore degli interessi dei membri della propria specie e contro quelli dei membri di altre specie» [3] (in realtà Singer nel suo libro si limita a riportare la definizione fornita da Ryder argomentandola, ciò si evince chiaramente dalla nota che lo stesso autore inserisce nel testo e che fa per l’appunto riferimento a Ryder, N.d.R.). Anche Singer mette in evidenza l’analogia dello specismo con altre forme di oppressione umana:
I razzisti violano il principio di uguaglianza attribuendo maggior peso agli interessi dei membri della propria razza qualora sussista un conflitto tra i loro interessi e gli interessi di coloro appartenenti ad un’altra razza. I sessisti violano il principio di uguaglianza favorendo gli interessi del proprio sesso. Allo stesso modo, gli specisti permettono che gli interessi della propria specie prevalgano sugli interessi superiori dei membri di altre specie. In ciascuno di questi casi lo schema è identico [3].
Molti anni più tardi, nel 2002, il sociologo David Nibert fa un passo oltre, definendo lo specismo come «un’ideologia creata e diffusa per legittimare l’uccisione e lo sfruttamento degli altri animali» [4]. In tal modo la responsabilità dell’oppressione animale viene spostata dal singolo individuo alle condizioni sociali (che influenzano il singolo individuo): nella definizione di Nibert lo specismo non è limitato al concetto di un semplice pregiudizio (un atteggiamento individuale), ma è identificato come un sistema di credenze socialmente condivise che permettono e rinforzano questo stesso pregiudizio contro esseri senzienti appartenenti ad altre specie diverse da quella umana.
Da questo breve resoconto si potrebbe concludere che lo specismo identifichi dunque un atteggiamento individuale e un’ideologia sociale volti a favorire, sostenere e perpetuare l’oppressione umana delle altre specie animali. Da ciò si può desumere che, specularmente, l’antispecismo sia definibile come quella forma di opposizione filosofica, politica (intesa come modo di agire del singolo volto a mutare una situazione sociale) e culturale all’oppressione animale.
Solo un evento storico
È importante osservare che lo specismo, come indicato da molti autori, non è una componente psico-sociale connaturata nell’essere umano, ma ha natura storica e dunque una sua origine e un suo sviluppo nel corso del processo di evoluzione umana. Infatti le originarie società di raccoglitori e cacciatori non possono essere definite speciste in quanto non possedevano una concezione dell’essere umano come specie superiore alle altre specie animali, né erano dedite ad uno sfruttamento sistematico dell’animale: l’uomo delle origini si considerava parte del mondo naturale e, in quanto animale, del tutto simile agli altri animali.
Lo specismo nasce solo successivamente con le prime pratiche di assoggettamento, manipolazione e sfruttamento della natura e degli animali (agricoltura e allevamento) sviluppatesi nella società neolitica, quindi in un periodo piuttosto recente nella storia evolutiva umana: circa 10mila anni fa, ovvero dopo milioni di anni che il percorso evolutivo dell’essere umano si era separato da quello delle altre grandi scimmie, e circa 190mila anni dalla comparsa dell’Homo sapiens. Dalla sua nascita nel Neolitico lo specismo si andrà strutturando in maniera sempre più definita e pervasiva nei millenni successivi, fino al completo consolidamento nella cultura umana con la nascita delle grandi religioni monoteiste, che proclamano definitivamente il dominio umano sul resto della natura e del vivente.
Non è quindi la violenza (naturalmente presente già nelle uccisioni degli antichi cacciatori) a caratterizzare lo specismo, bensì una concezione antropocentrica dell’esistenza e un rapporto tra umano e animale del tipo dominante-dominato. Lo specismo, pertanto, non mostrando un carattere naturale e inquadrato in una categoria storico-culturale come fenomeno acquisito, non può essere considerato né eterno né immutabile: in quanto evento storico con una propria origine e un proprio sviluppo, lo specismo può pertanto avere anche una fine. Lo specismo naturale, invece, come spontanea propensione verso il simile della propria specie e rivalità verso individui di altre specie, non è oggetto di interesse dell’antispecismo.
Oltre all’evidente analogia tra lo specismo e le altre pratiche di oppressione umane quali il razzismo o il sessismo, evidenziata sin dall’inizio da Ryder e Singer, molti autori concordano nel ritenere lo specismo anche all’origine ideologica e storica di queste stesse forme di discriminazione intraumane e parte fondante della più vasta ideologia di dominio dell’essere umano sulla natura e sull’essere vivente.
Antispecismo classico e antispecismo politico
Attualmente nel movimento antispecista prevalgono, semplificando al massimo, due approcci. Gli attivisti e gli autori che sostengono l’approccio classico ritengono l’obiettivo unico del movimento la fine dell’oppressione animale, e sostengono che ogni attività intrapresa debba muoversi in questa direzione e agire per la realizzazione di un’evoluzione di una cultura antispecista nell’opinione pubblica.
Altri attivisti e autori, sostenitori dell’antispecismo cosiddetto politico, in virtù del legame tra oppressione umana e oppressione animale e in alcuni casi arrivando fino ad includere il pensiero anarchico, teorie anticapitaliste di matrice marxista e idee di pensatori socialisti, ritengono invece che solo una lotta congiunta che necessariamente si ponga nella meta una liberazione totale degli umani (intesa come liberazione da strutture sociali limitanti e/o da forme di oppressione effettiva quali il razzismo e il sessismo) e degli animali volta a destrutturare un meccanismo di oppressione comune, possa essere considerata la strada più promettente in grado di garantire un maggiore successo di realizzazione, mentre un’azione limitata solo su una metà e che non tenga conto dell’altra metà sarà destinata inevitabilmente al fallimento.
I sostenitori di questo approccio ritengono pertanto che il movimento antispecista debba necessariamente accogliere e riunire insieme anche le istanze e i soggetti degli altri gruppi di liberazione umana (in alcuni casi fino ad includere gruppi ecologisti radicali) e – secondo alcuni autori – impegnarsi parallelamente in una radicale critica della struttura politica della società. Così ad esempio viene affermato nel Manifesto antispecista:
L’attivista antispecista è moralmente tenuto a impegnarsi nel quotidiano contro ogni tipo di ingiustizia e di prevaricazione nei confronti dei più deboli o svantaggiati, siano essi Umani o Animali. Le attenzioni verso gli Umani, verso l’ambiente e la Terra sono da considerarsi parte integrante della lotta per la liberazione degli Animali, e viceversa [5].
Il filosofo Marco Maurizi ritiene invece che nel movimento, oltre alle attività in difesa degli animali, «si conduca una lotta per colpire le strutture sociali che sono le vere portatrici dello sfruttamento» [6].
Ho notato che, spesso, chi propende da una parte o dall’altra delle due correnti, tende ad identificare l’antispecismo con l’approccio sostenuto (classico o politico), ignorando e rinnegando al contempo l’altro approccio (benché ciò in alcuni casi possa accadere per semplice estraneità al dualismo del movimento). Capisco il giusto bisogno di affermare le proprie idee e di proporle agli altri, ma finché non si giungerà ad una più piena maturazione del movimento antispecista tale che lo renda in grado di definire concordemente la propria posizione (se mai ciò accadrà), si dovrebbe considerarlo come ancora scisso in due parti e presentare l’approccio sostenuto come l’opzione personalmente ritenuta meglio confacente al movimento antispecista.
Questo è, in generale e in maniera molto sintetica, il quadro complessivo della situazione attuale (e nei limiti di quanto sono riuscito a coglierne). La questione è molto più complessa e articolata, ma spero di essere perlomeno riuscito a restituire in maniera semplice e chiara un’analisi comprensibile e stimolante anche per l’attivista medio e suscitare in lui una più attenta riflessione personale.
Riccardo B.
Note:
1. Richard D. Ryder, Speciesism again: the original leaflet.
2. Richard D. Ryder, Experiments on Animals, 1971. Cit. in: Stanley Godlovitch, Roslind Godlovitch, John Harris, Animals, Men and Morals, pagg. 41–82. Cit. in: Wikipedia.org, Speciesism.
3. Peter Singer, Animal Liberation. Cit. in: Wikipedia.org, Speciesism.
4. David Nibert, Animal Rights/Human Rights: Entaglements of Oppression and Liberation, Rowman & Littlefield, 2002, pag. 243. Cit. in: Joan Dunayer, Definire lo specismo.
5. Manifesto antispecista, Proposte per un Manifesto antispecista.
6. Marco Maurizi, Tre passi avanti e due indietro – Una riposta a Caffo.