Fonte Veganzetta
In occasione della ricorrenza del Giorno della Memoria (il 27 gennaio) in cui si commemorano le vittime dell’Olocausto, è utile ricordare che l’origine etimologica del termine deriva dal greco antico e significando “bruciato interamente” indicava il rogo del corpo delle vittime animali immolate in onore di una divinità. Come quasi sempre accade l’origine della sofferenza umana trae origine o “ispirazione” dalla sofferenza non umana.
Nessun olocausto (sia umano che non umano) può avvenire senza un’articolata organizzazione atta al controllo e alla delimitazione fisica dello spazio, a tal proposito si propone la lettura di un estratto da un interessante libro di Olivier Razac (Storia politica del filo spinato, Ombre Corte, 2005), in cui l’autore ben delinea le caratteristiche salienti dell’oggetto filo spinato e la spiccata capacità del sistema sociale umano di separare, controllare e sfruttare gli esseri viventi.
Filo spinato e sorveglianza
Un recinto o un muro non sono mai sufficienti da soli. Dovrebbero essere indistruttibili, il che è impossibile. Ogni separazione materiale necessita dunque di riparazioni, migliorie e soprattutto di sorveglianza. E un filo spinato deve essere tanto più sorvegliato quanto più è materialmente vulnerabile. Paradossalmente, il filo spinato è molto vulnerabile: leggerezza e flessibilità comportano anche una certa fragilità. Se nessuno è lì a proteggere il filo, è facilissimo tagliarlo, basta un buon paio di cesoie. Per questo i recinti dei terreni vengono sorvegliati dai loro proprietari.
Davanti alle trincee, le vedette scrutano la no man’s land e i loro fucili sono puntati su chi cercasse di tagliare i fili. Nei campi di concentramento, nonostante il recinto sia carico di corrente elettrica, senza le torrette il campo non sarebbe chiuso. I rari esempi di evasione mostrano che il problema principale è rappresentato dalle torrette e non da i fili spinati.
A Mauthausen, nel 1945, i prigionieri di guerra sovietici, sottoposti a un trattamento particolarmente duro volto a sterminarli, tentano di evadere.”L’evasione cominciò prendendo d’assalto una torretta di guardia. […] Poi neutralizzarono la recinzione carica di corrente provocando dei corto circuiti con delle coperte bagnate, e si impadronirono di un’altra torretta usando learmi prese nella prima” (1).
La sorveglianza legata ai fili spinati non è uno sguardo verso l’interno o verso l’esterno, ma uno sguardo miope puntato sul contorno protettivo. È per questo che, per quanto riguarda i campi, non si può parlare di una sorveglianza visiva normalizzatrice e permanente, di una sorveglianza panoptica. Che un certo numero di campi sia stato costruito secondo un quadrilatero regolare e a volte a stella (Sachsenhausen), non basta a farne dei dispositivi in grado di realizzare l’utopia architettonica di Bentham (2).
Il panopticon, progetto di prigione ideato alla fine del XVIII secolo dal precursore dell’utilitarismo inglese, Jeremy Bentham, era stato pensato al fine di realizzare un consistente risparmio, permettendo a un solo sorvegliante, posto al centro di un edificio circolare, di vedere tutti i prigionieri rinchiusi in celle, disposte lungo il perimetro, richiuse da una grata. La presenza del sorvegliante, che non può essere visto dai detenuti, diventa superflua e la sorveglianza automatica, virtuale; basta pensare di essere potenzialmente sorvegliati per agire come un sorvegliato di fatto. Vediamo che questo principio architettonico può metaforicamente designare una delle principali strategie del potere moderno, dove non si tratta tanto di rinchiudere quanto di produrre degli individui disciplinati (3).
Il funzionamento della coppia filo spinato-sorveglianza è di un altro ordine.
Anche se perfettamente compatibile con un controllo panoptico, non verte sul comportamento generale dei sorvegliati ma semplicemente sul loro rapporto con la delimitazione che li costringe. Proibisce a loro unicamente di uscire dal perimetro autorizzato e di entrare nel perimetro vietato. C’è certamente un effetto di dissuasione di tipo panoptico, poiché chi tenta di forzare lo sbarramento non è certo di essere osservato (per esempio dalla trincea o dalle torrette). Fa necessariamente sua questa sorveglianza,assumendola come propria. La zona davanti ai fili spinati carichi di corrente è sempre percepita come vietata, mortale. Se il panoptismo consiste nell’esporre ciascuno a una sorveglianza normativa virtuale al fine di indurre comportamenti determinati, la coppia filo spinato-sorveglianza mira solo a produrre una delimitazione permanente e senza falle. Virtualmente reattiva, gli indesiderati devono considerarla come sempre attualmente attiva.
Ovviamente, nulla impedisce che la sorveglianza del limite sia a sua volta collegata ad altri dispositivi di sorveglianza, quella del contadino sul suo terreno, dell’allevatore sulla sua mandria, degli aerei spia sopra il territorio nemico, del kapo sul detenuto del campo di concentramento. Ma questa non è la funzione specifica della coppia filo spinato-sorveglianza, che riguarda soltanto le soglie e i loro passaggi.
Filo spinato e sorveglianza formano dunque un unico dispositivo di potere applicato allo spazio. La loro unione è tanto più giustificata in quanto essi non sono soltanto connessi ma legati e inseparabili. Mentre lo sguardo veglia sul filo spinato, quest’ultimo protegge l’occhio che scruta. La sorveglianza sta necessariamente dalla parte positiva del recinto: sono impensabili delle torrette all’interno della recinzione del campo di concentramento. Non si può decidere se è più importante la torretta o il filo spinato, perché il recinto protegge la sorveglianza che a sua volta protegge il recinto.
Più precisamente, mentre la sorveglianza utilizza il tempo concesso dalla barriera per organizzare una risposta adeguata, la barriera si regge sulla velocità di reazione della sorveglianza. L’idea è di produrre un ritardo temporale nell’aggressione del dispositivo, e nello stesso tempo una difesa rapida ed efficace grazie alle informazioni fornite dalla sorveglianza. Come si vede, nel suo funzionamento, il dispositivo filo spinato-sorveglianza è più temporale che spaziale (4).
Il filo spinato sembra così dimostrare che i problemi moderni di gestione politica dello spazio possono essere risolti solo attraverso un alleggerimento del segno che delimita e una intensificazione dell’azione che respinge. È pressoché finito il tempo delle separazioni pesanti, sono troppo vistose e offrono troppi pretesti. Con il passaggio progressivo dal fisico del recinto all’ottico della sorveglianza, il controllo dello spazio si fa discreto e interattivo. Rovesciare il gioco delle visibilità: furtivamente si poteva attaccare una barriera visibile; ora è il limite che si sottrae agli sguardi e alle mani di chi cerca di superarlo e, sorpresi, si resta in piena luce, esposti alla reazione.
L’innovazione del filo spinato è già un farsi virtuale del limite spaziale, perché privilegia il leggero sull’imponente, la velocità sulla staticità, la luce sull’opacità e il potenziale sull’attuale. Virtualizzare qui non significa rendere meno reale, ma operare un trasferimento dai dispositivi di potere materiali e statici ai dispositivi energetici e informazionali dinamici. Invece di concentrare una grande quantità di energia sotto forma di torri e mura, il potere moderno tende a creare dei dispositivi mobili che agiscono, e dunque consumano, solo quando è necessario. Virtualizzazione non significa minore controllo dello spazio. Al contrario, l’alleggerimento della presenza in atto delle separazioni va a diretto vantaggio della capacità operativa del potere, cioè della sua potenza.
Il filo spinato può dunque essere considerato come un punto fondamentale di una storia del farsi virtuale della gestione politica dello spazio. Il simbolo del potere rappresentato dalla capacità di chiudere gli spazi, di ostruirli con prepotenza, tende a indebolirsi, cioè a divenire l’immagine negativa di una sovranità brutale che privilegia i simboli del dominio piuttosto che gli strumenti dell’efficacia. Ma a partire dalla Seconda Guerra Mondiale, anche il filo spinato comincia ad apparire come una tecnologia pesante, arcaica, e soprattutto come un simbolo quasi universale dell’oppressione.
Note:
1) G. J. Horwitz, Mauthausen, ville d’Autriche. 1938-1945, Seuil, Paris 1992, p.196.
2) Cfr. J. L. Cohen, “La mort est mon projet”: architecture des camps, in F.Darida e L. Gervereau (dir.), La d´portation, le système concentrationnaire nazi, La D’couverte, Paris 1995, pp. 35-36. Diversamente da Jean-Luis Choen, a noi non sembra che l’architettura del campo sia panoptica. La discussione potrebbe vertere sul carattere panopico, per analogia politico, della sorveglianza dei kapo o dell’effetto del terrore.
3) Sul Panopticon, cfr. J. Bentham, Panopticon, ovvero la casa d’ispezione, trad.it. di V. Fortunati, a cura di M. Foucault e M. Perrot, Marsilio, Venezia 1983.
E sulla sua diffusione come principio disciplinare generale, cfr. M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, trad. it. A. Tarchetti, Einaudi, Torino 1976, pp. 213-247.
4) L’effetto prodotto è spaziale ma il modo di funzionamento è principalmente temporale.