Questo articolo riporta un testo di Massimo Filippi intitolato “brevi note su specismo e antispecismo”, le note (tutt’altro che brevi, ma molto interessanti) hanno il pregio di delineare lo scenario filosofico e storico in cui si muovono specismo ed antispecismo. L’autore inoltre propone alcune soluzioni utili e da dibattere.
BREVI NOTE SU SPECISMO E ANTISPECISMO
http://www.oltrelaspecie.org/doc/seminario-antispecista/Filippi.pdf
Massimo Filippi
«Penso alle mucche, ai vitelli, al toro; capre e pecore e perfino […] all’umile maiale, come a rappresentazioni celesti: mansuete, dolorose sempre, benevole sempre, magnifiche. Non vedo perché l’uomo debba pensare che gli appartengono, che sono suoi propri, che può distruggerli, usarli. Concetto tra i più barbari e nefasti, da cui procede tutta la immedicabile violenza umana, l’essere micidiale della storia, la cui meta sembra solo l’accrescimento di sé, tramite il possesso e la distruzione dell’altro da sé. [… ] Più uccidiamo e più siamo uccisi. Più degradiamo e più siamo degradati» (1).
Il termine specismo è stato introdotto nel 1970 da Richard D. Ryder (2), psicologo inglese che ha ripudiato per motivi etici la sperimentazione animale, ed è stato reso popolare da Peter Singer nel suo libro Liberazione animale (3) del 1975. Secondo Singer, specismo è:
«Un pregiudizio o atteggiamento di prevenzione a favore degli interessi dei membri della propria specie e a sfavore di quelli dei membri di altre specie» (4).
Sempre Singer ritiene lo specismo parte integrante di quella lunga serie di violazioni del principio di eguaglianza, che hanno nel razzismo e nel sessismo le loro espressioni intraspecifiche più note:
«Il razzista viola il principio di eguaglianza attribuendo maggior peso agli interessi dei membri della sua razza qualora si verifichi un conflitto tra gli interessi di questi ultimi e quelli dei membri di un’altra razza. Il sessista viola il principio di eguaglianza favorendo gli interessi del proprio sesso.
Analogamente, lo specista permette che gli interessi della sua specie prevalgano su interessi superiori dei membri di altre specie. Lo schema è lo stesso in ciascun caso» (5).
In breve, lo specismo utilizza delle innegabili differenze biologiche tra umani e non umani al fine di accordare agli umani e ai soli umani uno stato morale privilegiato. Questo può avvenire, in maniera più rozza e più facilmente screditabile, tramite l’appello diretto all’appartenenza di specie (“Gli umani sono titolari di uno stato morale privilegiato in quanto appartenenti alla specie Homo Sapiens”) – “specismo incondizionato” – oppure, in maniera più sofisticata, sostenendo che l’appartenenza alla specie Homo Sapiens conferisce delle caratteristiche moralmente rilevanti (quali l’anima, il linguaggio, l’autocoscienza, l’essere un agente morale, la capacità di comprendere e sottoscrivere un contratto sociale, ecc.) non possedute da altre specie, caratteristiche ritenute necessarie per il riconoscimento di uno stato morale privilegiato – “specismo condizionato” (6).
Lo specismo “incondizionato” si basa essenzialmente su un ragionamento di tipo circolare che, seppur dominante fino a pochi decenni fa, è oggi totalmente screditato. La nostra elaborazione morale ha, infatti, ormai definitivamente acquisito quanto già inteso da Jeremy Bentham (7), e cioè che semplici differenze biologiche non possono costituire dei criteri per accordare una differente considerazione morale a soggetti con le medesime caratteristiche rilevanti sotto questo riguardo. Per gli stessi motivi, per cui, con grande fatica, siamo riusciti a capire che le donne non hanno minori interessi/diritti degli uomini, o che i neri non hanno minori interessi/diritti dei bianchi, dovremmo a questo punto superare definitivamente anche lo specismo “incondizionato”.
Lo specismo condizionato può essere articolato sotto tre capitoli principali: il possedere o meno un’anima immortale, l’essere o meno un agente morale, il possedere o meno la razionalità. Anche se uno iato così definitivo tra la nostra e le altre specie è minato (8) alle fondamenta dalla teoria darwiniana (9) e dalle acquisizioni scientifiche post-darwiniane (10) e tralasciando laicamente la questione dell’anima (11), nessuna di queste proposte normative regge, comunque, all’urto dell’argomentazione razionale.
Si definiscono agenti morali quegli individui in grado di giudicare la valenza morale delle proprie azioni. Sono invece pazienti morali quegli individui che subiscono gli effetti di un’azione, senza però essere a loro volta in grado di compiere delle azioni morali (12). A parte il fatto che in sede di elaborazione filosofica non tutti concordano che solo gli appartenenti alla specie Homo Sapiens siano agenti morali (13), esiste ormai un accordo consolidato che riconosce agli altri animali lo stato di pazienti morali. Testimonianza di ciò è il fatto che in tutti i Paesi, pur mantenendo i non umani nello stato giuridico di beni di proprietà, proliferano leggi sul cosiddetto “benessere animale” (14), leggi che non avrebbero senso se gli animali non umani fossero semplicemente pura res extensa, meri automi naturali, macchine perfettamente congegnate dalla divinità a funzionare senza sentire, «orologi», secondo il dettato e la terminologia di René Descartes (15). Ma essere pazienti morali non significa essere privi di interessi o non essere titolari dei diritti fondamentali; infatti, il fatto che un individuo non possa svolgere un’azione morale, non significa che non possa subirne le conseguenze. In sostanza, questa versione dello specismo confonde il come, ossia la possibilità della morale, con il cosa, ossia l’oggetto della morale e, in una visione egualitaria, viene empiricamente screditata dal trattamento accordato ai cosiddetti umani marginali. Gli umani marginali (ad esempio, bambini anencefalici e soggetti con gravi deficit neurologici) sono del tutto incapaci di compiere azioni morali, ma non per questo vengono “mangiati” o “sperimentati”. Quindi, l’essere o meno un agente morale non può costituire quel criterio discriminante per tracciare la linea al di là della quale non ha senso parlare di considerazione morale.
L’altra versione dello specismo condizionato si rifà alla nozione di razionalità.
Tralasciando altre versioni dell’appello alla razionalità, questo è stato fondamentalmente declinato, con forte ascendenza hobbesiana, come capacità di siglare un contratto sociale, una qualche forma di accordo: riconosciuta la reciproca potenziale pericolosità e i vantaggi del vivere in un ambiente sociale pacificato, esseri razionali ed egoisti accettano, in un contratto ideale, di limitare le reciproche pretese per incrementare le proprie chances di vita. Poiché gli animali non umani non partecipano a tale contratto, essi sono anche esclusi dai benefici che tale contratto accorda. Tale linea argomentativa non è solo contraddetta (ancora una volta) dal trattamento riservato agli umani marginali, ma anche dai suoi stessi più recenti sviluppi. Un esponente di rilievo di tale dottrina è, infatti, John Rawls, che in Una teoria della giustizia (16) sostiene che la promulgazione di norme sociali che rispettino il principio di giustizia richiede che i soggetti coinvolti operino come se non fossero ancora venuti al mondo, come se fossero dietro a un velo di ignoranza. Nella condizione originaria, gli individui non sapendo quale sarà la loro classe, razza, genere, ecc. di appartenenza una volta “gettati” nel mondo reale (essendo cioè individui non interessati, ma essendo informati ed egoisti), non sosterranno di certo norme discriminatorie sulla base di queste caratteristiche, norme che potrebbero avere per loro stessi una valenza estremamente negativa una volta nati. In un’ottica antispecista, Rowlands allarga un po’ il discorso di Rawls e ci domanda come ci comporteremmo se rendessimo solo un po’ più spesso il velo di ignoranza e cioè se nella situazione originaria non sapessimo neppure quale sarà il nostro genotipo (17). Lasceremmo immutato lo stato morale e giuridico degli altri animali se non sapessimo, ad esempio, se saremo destinati a nascere umani o maiali?
Riassumendo, lo specismo condizionato è stato confutato sia sul piano speculativo sia su quello empirico. Speculativamente, risulta difficile accordare diritti (nella terminologia deontologica) o riconoscere interessi (nella terminologia utilitarista) fondamentali, quali quello alla vita, all’integrità fisica e alla libertà, sulla base di caratteristiche differenti dall’essere “soggetti-di-una-vita” (18) o dalla capacità di provare piacere/dolore (19). Il riconoscimento che almeno la maggioranza, se non la totalità, degli altri animali condivide con noi una serie di caratteristiche identiche sotto tutti gli aspetti moralmente rilevanti (20) indica, al di là di ogni ragionevole dubbio, che questi debbono rientrare nella sfera della considerazione morale. Pertanto, l’essere un agente morale, l’avere un’anima immortale, o l’essere in grado di sottoscrivere razionalmente un contratto sociale non hanno rilevanza morale alcuna, tanto quanto non ne hanno il colore della pelle (razzismo) o l’appartenenza di genere (sessismo) nel definire chi possiede, nell’ambito della nostra specie, una particolare serie di diritti/interessi. Empiricamente, se vogliamo mantenere la corretta intuizione preriflessiva che accorda agli umani marginali uno stato morale privilegiato (nonostante questi individui siano privi delle caratteristiche paradigmatiche della nostra specie), senza derogare al principio di eguaglianza (tale per cui si accorda identico trattamento a chi ha identiche caratteristiche), dobbiamo necessariamente abbandonare anche qualsiasi forma di specismo condizionato.
Lo specismo non è, però, solo una dottrina accademica più o meno sostenibile, ma, tramite il suo dispositivo “differenza=gerarchia”, ha anche degli importanti risvolti pratici. Grazie infatti alla sua svalutazione in sede teorica degli animali non umani a puri oggetti totalmente disponibili, lo specismo ne rende possibile nella pratica, tramite la loro assimilazione a beni di proprietà e di consumo (merci), lo sfruttamento e l’uccisione a vantaggio di qualunque interesse umano. Per questo motivo il sociologo americano David Nibert definisce lo specismo come:
«Un’ideologia creata e diffusa per legittimare l’uccisione e lo sfruttamento degli altri animali» (21)
Anche se resta difficile, se non impossibile, definire se storicamente sia nata prima l’ideologia specista che ha poi reso possibile lo sfruttamento degli altri animali o se, all’opposto, la nascita dello sfruttamento degli altri animali abbia reso necessaria la formulazione di un’ideologia giustificazionista, la definizione di Nibert è importante in quanto introduce un concetto fondamentale e cioè che l’ideologia specista è inestricabilmente legata a una serie di pratiche altrettanto speciste e che i due poli dello specismo si alimentano vicendevolmente. Questo “cortocircuito” tra ideologia e pratiche speciste è ben riassunto da Joan Dunayer laddove afferma:
«Ogni volta che vedete un uccello rinchiuso in gabbia, un pesce confinato in una vasca, o un mammifero non umano legato a una catena, state vedendo lo specismo. […] Se ritenete che gli umani siano superiori agli altri animali, state approvando lo specismo. Allorquando visitate un acquario o uno zoo, assistete a uno spettacolo circense con animali, vestite capi in pelli o pellicce o mangiate carne, uova o prodotti caseari, state mettendo in pratica lo specismo.
Se sostenete campagne a favore dell’uccisione “umanitaria” dei polli o per condizioni di allevamento meno crudeli per i maiali, state perpetuando lo specismo» (22)
Sulla base di queste considerazioni, nel 2004 la stessa autrice ha formulato una nuova definizione di specismo, secondo la quale per specismo si dovrebbe intendere:
«L’incapacità, nel modo di pensare o nella pratica quotidiana, di accordare ai non umani uguali considerazione e rispetto» (23).
Da quanto detto, lo specismo, quindi, non è che un altro dei molti pregiudizi irrazionali, infondati e infondabili, del tutto identico a quelli con cui la nostra specie si è resa responsabile di un ininterrotto susseguirsi di orrori a carico di gruppi umani ritenuti “inferiori” (cioè moralmente assimilabili agli altri animali (24)). Anzi, per molti pensatori, lo specismo andrebbe considerato come l’aspetto fondativo di quel pensiero dualistico che istituisce scale gerarchiche tra esseri moralmente simili sulla base di mere differenze biologiche che, come tali, sono completamente irrilevanti sul piano della considerazione etica. In questo senso, lo specismo sussumerebbe in sé tutte quelle ideologie che intendono tracciare una linea invalicabile tra noi e loro, qualunque siano i “noi” e qualunque siano i “loro”, dove ai “noi” sono concessi diritti e dominio e ai “loro” sofferenza e oppressione.
Nelle parole di Theodor W. Adorno:
«L’affermazione ricorrente che i selvaggi, i negri, i giapponesi, somigliano ad animali, o a scimmie, contiene già la chiave del pogrom» (25).
Specularmente, l’antispecismo può essere visto come lo sviluppo storico di quelle ideologie, che prevedono la progressiva sostituzione di visioni del mondo gerarchiche con presunzioni a favore dell’eguaglianza. In questo senso, l’antispecismo è quella rivoluzione morale copernicana che attualizza le migliori intuizioni della nostra tradizione culturale, che storicamente ha tradito il suo essere più profondo (cioè la richiesta di eguale considerazione per tutti coloro che condividono le medesime caratteristiche moralmente rilevanti), proponendo, nelle parole di Nozick (26), una morale kantiana per gli umani (“Tutti gli uomini vanno trattati come fini e non come mezzi per fini altrui” (27)) e una morale utilitaristica per gli altri animali (“Non si deve incrudelire verso gli animali fintanto che questo non confligga con un qualche interesse umano” (28)). L’antispecismo, infatti, accogliendo gli sviluppi più recenti della filosofia morale e le acquisizioni empiriche sulla complessità mentale degli altri animali inserisce questi ultimi a pieno diritto all’interno della sfera della considerazione etica, sbarrando definitivamente la strada sia a teorie perfezionistiche sia a teorie ambientaliste di stampo olistico (29), portando così diritti/interessi umani e diritti/interessi degli altri animali su un terreno più solido e sicuro. In questo senso, una definizione matura di antispecismo potrebbe riprendere quella di Joan Dunayer, modificandola nel modo seguente:
«Antispecismo, che necessariamente non può non includere in sé teorie emancipative intraspecifiche, è l’acquisizione nel modo di pensare o nella pratica quotidiana, della necessità di accordare ai non appartenenti al proprio gruppo uguali considerazione e rispetto»
Riconosciuti gli altri animali come fini e non come mezzi, attualizzando così l’imperativo morale kantiano (30) che autocontradditoriamente si era arrestato sulla soglia di insignificanti confini biologici, la pratica dell’antispecismo non può non tradursi, come sottolineato dai filosofi del diritto Gary L. Francione e Steven M. Wise (31), nella richiesta della modificazione dell’attuale stato giuridico degli animali non umani, non più da normare come beni di proprietà, ma da trattare come portatori dei diritti/interessi fondamentali alla vita, alla libertà e alla non-sofferenza. Nell’attesa di questo momento e al fine di avvicinarlo, la richiesta di un movimento antispecita maturo dovrebbe essere quella riassunta efficacemente da Tom Regan, quando afferma: «Dobbiamo svuotare le gabbie, non renderle più grandi» (32)
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NOTE:
1) Anna Maria Ortese, Corpo celeste, Adelphi 2003, pp. 124-125. La stretta connessione tra tutti gli “ultimi” e il ruolo in questa giocato dalla condizione degli altri animali e dalle nostre possibilità di intervento sono il leit-motiv dei tre principali romanzi “animalisti” della Ortese,
L’iguana, Il cardillo addolorato e Alonso e i visionari, ora raccolti in Romanzi, vol. II, Adelphi 2005. Si veda, ad esempio, l’indimenticabile passo conclusivo di Alonso e i visionari: «La vita – come le tenebre televisive – non è mai nelle nostre stanze, ma altrove. Così, chi cercasse il Cucciolo, scruti, la notte, nel silenzio del mondo; non lo chiami, se non sottovoce, ma sempre abbia cura di rinnovare l’acqua della sua ciotola triste», p. 888.
2) Per una completa revisione storica del concetto di specismo e degli sforzi per allargare la sfera della considerazione morale agli altri animali si rimanda a Richard D. Ryder, Animal revolution. Changing attitudes towards speciesim, Berg 2000.
3) Peter Singer, Liberazione animale, Il Saggiatore 2003.
4) Peter Singer, Ivi, p. 22.
5) Peter Singer, Ivi, p. 24.
6) Riprendo i termini di “specismo incondizionato” e di “specismo condizionato” da James Rachels, Creati dagli animali. Implicazioni morali del darwinismo, Edizioni di Comunità 1996, pp. 213-228.
7) Anche se probabilmente non necessario, riporto qui il passo di Jeremy Bentham che, a buon diritto, può essere considerato uno dei momenti “fondativi” dell’antispecismo moderno, The principles of moral and legislation, Hafner Press 1948, p. 311: «Verrà il giorno in cui il resto degli esseri animali potrà acquisire quei diritti che non gli sono mai stati negati se non dalla mano della tirannia. I francesi hanno già scoperto che il colore nero della pelle non è un motivo per cui un essere umano debba essere irrimediabilmente abbandonato ai capricci di un torturatore. Si potrà un giorno giungere a riconoscere che il numero delle gambe, la villosità della pelle o la terminazione dell’osso sacro sono motivi ugualmente insufficienti per
abbandonare un essere sensibile allo stesso destino! Che altro dovrebbe tracciare la linea invalicabile? La facoltà della ragione, o forse quella del linguaggio? Ma un cavallo o un cane adulti sono senza paragone animali più razionali, e più comunicativi, di un bambino di un giorno, o di una settimana, o persino di un mese. Ma anche ammesso che fosse altrimenti, cosa importerebbe? Il problema non è: “Possono ragionare?”, né: “Possono parlare?”, ma: “Possono soffrire?”».
8) Mutuo il concetto secondo cui le acquisizioni darwiniane “minano” (undermine) la nostra credenza circa l’indubitabile superiorità della nostra specie sulle altre da James Rachel, Creati dagli animali, cit., in particolare pp. 75-118. Come chiaramente individuato da Rachels, Darwin apre quella stagione che non sostituisce meri fatti biologici con altri, ricadendo così nella cosiddetta fallacia naturalistica (che deduce conclusioni circa il modo in cui le cose dovrebbero essere da una descrizione di come le cose effettivamente stiano – non superando quindi l’obiezione della “ghigliottina di Hume”, altrimenti nota come la “is/ought
question”), ma mina alle fondamenta dei valori consolidati (ad esempio, nel nostro contesto, la sacralità della sola vita umana) sottraendo loro le ragioni fattuali o le credenze che ne stanno alle fondamenta e che le rendono plausibili.
9) Charles Darwin, L’origine delle specie. Selezione naturale e lotta per l’esistenza, Bollati Boringhieri 1967 e L’origine dell’uomo, Rizzoli 1982
10) Mi riferisco qui a quella congerie di acquisizioni scientifiche post-darwiniane che vanno dall’introduzione nella biologia evoluzionistica della nozione di storicità operata, tra gli altri, da Stephen J. Gould (si vedano, ad esempio, Stephen J. Gould, La vita meravigliosa, Feltrinelli 1990 e La struttura della teoria dell’evoluzione, Codice Edizioni 2003), alla “scoperta” in etologia delle cosiddette menti animali (si vedano ad esempio, Colin Allen e Marc Bekoff, Il pensiero animale, McGraw-Hill 1998 e Donald R. Griffin, Menti animali, Bollati Boringhieri 1999), all’ecologia scientifica, secondo la quale esiste un’inestricabile interdipendenza fra le varie componenti della biosfera (James Lovelock, Gaia. Nuove idee sull’ecologia, Bollati Boringhieri 1996), agli studi sui primati non umani che hanno mostrato come alcune scimmie antropomorfe siano in grado di imparare i nostri codici linguistici (si vedano, ad esempio, Roger Fouts, La scuola delle scimmie. Come ho insegnato a parlare a Washoe, Mondadori 1999 o la seconda sezione, Conversare con le grandi scimmie, del volume Il progetto grande scimmia. Eguaglianza oltre i confini della specie, a cura di Paola Cavalieri e Peter Singer, Theoria 1993, pp. 37-92), alla biologia molecolare, che ha evidenziato come la distanza genetica tra noi e gli scimpanzé (1,6%) è inferiore a quella tra scimpanzé e gorilla e oranghi (3,6%) (si veda, ad esempio, Richard Dawkins, Vuoti nella mente, In: Il progetto grande scimmia, cit., pp. 95-103) e alla nuova classificazione da parte della biologia cladistica che prevede che, in aggiunta alla nostra specie, anche scimpanzé comune e scimpanzé pigmeo e, probabilmente, il gorilla, appartengano a pieno titolo al genere Homo (si veda, ad esempio, Jered Diamond, Il terzo scimpanzé, In: Il progetto grande scimmia, cit., pp. 105-120).
11) Per una discussione della questione degli altri animali da un’ottica credente, ma non sfavorevole ai non umani, si vedano, ad esempio, Humphry Primatt, Dissertation on the duty of mercy and the sin of cruelty to brute animals, T. Constable 1776; Eugen Drewermann, Sulla immortalità degli animali, Neri Pozza 1997; Andrew Linzey, Teologia animale, Edizioni Cosmopolis 1998; Stephen H. Webb, On God and dogs, Oxford 1998; Matthew Scully, Dominion, St. Martin’s Griffin 2002.
12) Per una discussione più approfondita sui concetti di agente e paziente morali, si rimanda a Paola Cavalieri, La questione animale. Per una teoria allargata dei diritti umani, Bollati Boringhieri 1999, pp. 34-54.
13) Steve F. Sapontzis, Morals, reason, and animals, Temple University Press 1987, pp. 27-46.
14) Per una discussione dettagliata sulla “schizofrenia” dell’attuale situazione giurisprudenziale degli animali non umani normati come beni di proprietà, ma tuttavia meritevoli di protezione nei confronti dei loro proprietari si veda: Gary L. Francione, Introduction to animal rights. Your child or the dog?, Temple University Press 2000, pp. 50-102.
15) Si veda, ad esempio, la Lettera alla Marchesa di Newcastle del 23 Novembre 1646, parzialmente riprodotta in: Gino Ditadi (a cura di), I filosofi e gli animali, Isonomia, pp. 546- 547: «So che gli animali fanno molte cose meglio di noi, ma questo non mi sorprende. Si può citare questo esempio persino per provare che essi agiscono naturalmente e meccanicamente, come un orologio che segna il tempo meglio di quanto faccia il nostro giudizio».
16) John Rawls, Una teoria della giustizia, Feltrinelli 1982.
17) Mark Rowlands, Animal rights: a philosophical defence, Macmillan 1998.
18) Ci si riferisce qui all’elaborazione teorica di Tom Regan estesamente sviluppata in Diritti animali, Garzanti 1990. Una concisa definizione di cosa Regan intenda per “soggetto-di-una11 vita” è riportata nel suo recente Gabbie vuote. La sfida dei diritti animali, Edizioni Sonda 2005, pp. 88-91.
19) Ci si riferisce qui all’elaborazione teorica in ambito utilitaristico condotta, in primo luogo, da Peter Singer, Liberazione animale, cit.
20) Questa, ancorché possa sembrare acquisizione recente, ha di fatto percorso sottotraccia il pensiero filosofico fin dai suoi albori. Si veda, ad esempio, Teofrasto, Della Pietà, a cura di Gino Ditadi, Isonomia 2005, pp. 261-262: «Similmente riteniamo che tutti gli uomini, ma anche tutti gli animali sono della stessa stirpe originaria, perché i principi dei loro corpi sono per natura gli stessi […], e ancor più perché l’anima che è in loro non è diversa per natura in rapporto agli appetiti, ai movimenti di collera, ai ragionamenti e soprattutto alle sensazioni».
21) David Nibert, Animal rights/Human rights. Entanglements of oppression and liberation. Rowman & Littlefield Publishers 2002, p. 243.
22) Joan Dunayer, Speciesism, Ryce Publishing 2004, p. 1.
23) Joan Dunayer, Ivi, p. 5.
24) In questo ambito, vanno sicuramente ricordati: Charles Patterson, Un’Eterna Treblinka. Il massacro degli animali e l’Olocausto, Editori Riuniti 2003; Marjorie Spiegel, The dreadful comparison, Mirror 1996; Barbara Noske, Beyond boundaries. Humans and animals, Black Rose Books 1997, pp. 11-21; Carol J. Adams, The sexual politics of meat. A feministvegetarian critical theory, Continuum 2004; Karen Davis, The Holocaust & the henmaid’s tale, Lantern Books 2005; David Nibert, Animal rights/Human rights, cit.
25) Theodor W. Adorno, Minima moralia. Meditazioni sulla vita offesa, Einaudi 1994, p. 117.
26) Robert Nozick, Anarchy, State and utopia, Basil Blackwell 1974, p. 39.
27) Immanuel Kant, Dei doveri verso gli animali e gli spiriti, In: Lezioni di etica, Laterza 1984, p. 273: «Per quel che riguarda gli animali, essendo dei semplici mezzi, privi di coscienza di sé, e l’uomo essendo invece il fine […] non vi sono verso di essi doveri diretti, ma solo doveri che sono doveri indiretti verso l’umanità. Poiché gli animali posseggono una natura analoga a quella degli uomini, osservando dei doveri verso di essi osserviamo dei doveri verso l’umanità, promuovendo con ciò i doveri che la riguardano».
28) Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, vol. XV, quest. 65, art. 3: «Chi uccide il bove di un altro non pecca perché uccide un bove, ma perché danneggia un uomo nei suoi averi. Ecco perché questo fatto non è elencato tra i peccati di omicidio, ma tra quelli di furto o di rapina».
29) Con questo termine riassumo quell’ampio spettro di posizioni che ricadono nell’ambito dell’ecologia profonda, sia biocentrica che ecocentrica, posizioni che accordano più “valore” all’intero ecosistema che ai singoli individui senzienti che lo abitano e che da Tom Regan sono state etichettate come “fascismo ambientalista”. In questo senso, nella “triangolazione” tra etica umanista ortodossa, teorie dei diritti animali ed etica ambientale, i difensori dei diritti degli altri animali, con il loro richiamo a un’etica basata sul singolo individuo, hanno molto più in comune con i filosofi morali classici che non con i fautori dell’ecologia profonda nelle sue varie versioni. Testimonianza di questo è la possibilità di integrare la visione dei diritti animali nel più potente dispositivo etico mai approntato in Occidente e, cioè, la dottrina kantiana, che ha escluso gli animali non umani dalla sua sfera di protezione per un errore logico e non per motivi intrinseci alla dottrina stessa (a questo proposito, si rimanda a Julian M. Franklin, Animal rights and moral philosophy, Columbia University Press, pp. 31-52; cfr. anche nota seguente). Inutile qui discutere le teorie ambientaliste che non si riconoscono nell’ecologia profonda, in quanto semplici riaffermazioni dell’antropocentrismo. Circa le difficoltà di riconciliare l’antispecismo con l’ambientalismo, si rimanda alla rapida, ma completa analisi di Robert Garner, The political theory of animal rights, Manchester University Press 2005, pp. 118-139.
30) Julian H. Franklin, Animal rights and moral philosophy, cit., p. xiii. Franklin correttamente sottolinea che Kant, limitando la validità della seconda formulazione dell’imperativo categorico ai soli esseri razionali, ha di fatto confuso gli estensori di tale imperativo categorico (che devono necessariamente essere razionali) con i suoi beneficiari e, pertanto, lo riformula nel modo seguente: «Agisci in modo da trattare sempre gli esseri senzienti, sia te stesso che gli altri, non semplicemente come mezzi, ma anche allo stesso tempo come fini».
31) Gary L. Francione, Animals, property, and the law, Temple University Press. 1995 e Steven M. Wise, Rattling the cage. Toward legal rights for animals, Perseus Publishing 2000.
32) Tom Regan, Gabbie vuote, cit., p. 103.